Q&A

Q&A sul gas


L’Italia ha bisogno di nuove infrastrutture (gasdotti e rigassificatori) per sostituire il gas russo?

No. 

I consumi di gas in Italia non hanno mai superato il picco del 2005. Da allora, salvo fluttuazioni annuali dovute ai cicli economici, seguono un trend di riduzione strutturale ancora insufficiente agli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia. Una risposta infrastrutturale, che implica costi di lungo termine e tempi di realizzazione considerevoli, rischia di essere sbagliata rispetto a una crisi acuta che potrebbe risolversi in una bolla o comunque normalizzarsi in tempi più brevi rispetto a quelli di realizzazione delle infrastrutture. 

Dall’inizio dell’invasione della Russia in Ucraina abbiamo analizzato scenari e opzioni di come l’Italia può dimezzare la dipendenza del gas russo in 12 mesi e uscirne completamente al 2025 attraverso un mix di rinnovabili, risparmio energetico, efficienza energetica e sfruttamento delle infrastrutture esistenti, senza necessità di ricorrere a nuove infrastrutture o nuova produzione di gas.

Azioni immediate di risparmio sui consumi potrebbero portare entro il prossimo inverno a un calo della domanda nazionale di gas naturale pari a circa un quinto dell’import di gas russo. L’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) nel febbraio 2022 ha pubblicato una lista di 20 comportamenti quotidiani in grado di far risparmiare fino al 10% sulla bolletta e il suo presidente ha preannunciato a metà giugno 2022 proposte al Governo per una riduzione dei consumi di gas invernali, che si aggiungeranno alle misure già inserite nel “Decreto Bollette”[1]. 

Ai risparmi attesi vanno poi aggiunte le misure per il miglioramento dell’efficienza energetica già previste dal Piano Nazionale per l’Energia e il Clima (PNIEC), stimabili in 2,3 miliardi di m3 circa di gas al 2025 e che non tengono conto di ulteriori 5,5 miliardi di m3 attesi dal pacchetto Fit for 55 e dal piano RePowerEU. Complessivamente le azioni di risparmio e le misure di efficienza energetica potrebbero portare a una riduzione di circa un quarto dell’import di gas russo al 2025.

Il settore che porterà ai maggiori risparmi di gas sarà il termoelettrico. Gli obiettivi europei al 2030 (-55% di emissioni serra nette rispetto al 1990) implicano per l’Italia una produzione elettrica rinnovabile di circa il 70% secondo lo stesso Governo rispetto all’attuale 35-40%. Governo che ha anche recentemente condiviso l’impegno G7 per un sistema elettrico prevalentemente decarbonizzato nel 2035. Lo stesso Ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha valutato fattibile e sostenibile il nuovo piano di Elettricità Futura di installare 85 GW di nuova capacità rinnovabile entro il 2030, con cui l’Italia potrebbe raggiungere una produzione elettrica rinnovabile dell’84%. La frazione rimanente di generazione a gas risulterebbe pertanto esigua già prima della fine del decennio. 

A metà giugno 2022 le uniche infrastrutture di importazione di gas in Italia usate pressoché a massima capacità sono i rigassificatori (La Spezia, Livorno e Rovigo, dove attraccano le navi di gas liquefatto) e il gasdotto TAP che porta gas azero in Puglia.  

Eventuali nuove infrastrutture di importazione del gas, come il gasdotto Eastmed e i due nuovi rigassificatori galleggianti, o di sviluppo della rete per accogliere nuovi approvvigionamenti LNG, entrerebbero in servizio perlopiù troppo tardi rispetto alla domanda di gas italiana ed europea, per continuare poi a pesare sull’economia e sui costi dell’energia per decenni. Non solo: le infrastrutture una volta realizzate tendono a favorire una persistenza della filiera a cui sono dedicate, allo stesso modo in cui i sussidi alle centrali termoelettriche a gas spiazzano le tecnologie alternative di flessibilizzazione della rete elettrica.

Oltre all’incoerenza nei tempi e nei volumi, le nuove infrastrutture rischiano anche di “legarci le mani” in un modo non desiderabile in termini di scenari geopolitici. Infatti, dare per scontato che il gasdotto dalla Russia smetta di essere utilizzato a tempo indeterminato anche in caso di mutate condizioni geopolitiche è irrazionale. Se le sanzioni e le ritorsioni commerciali hanno un senso, è anzitutto per tentare di normalizzare la situazione e non certo per tagliare ponti per sempre mettendo la controparte nella pericolosa condizione in cui non ha più nulla da perdere. 

L’Europa ha bisogno di nuove infrastrutture gas? E che ruolo può giocare l’Italia? 

Secondo lo studio Artelys “Does phasing-out Russian gas require new gas infrastructure?” del maggio 2022, svolto con un modello di simulazione del sistema energetico europeo, per fare a meno del gas russo sarebbe sufficiente un incremento di capacità di rigassificazione nei paesi Baltici e in Finlandia, oppure la sola gestione controllata di limitati razionamenti. Ciononostante, buona parte della risposta fornita dai governi alla crisi dei prezzi consiste nella corsa a nuovi investimenti in infrastrutture gas, senza alcuna preoccupazione per la loro efficienza economica. Tale risposta, presentata come necessaria per scongiurare scenari di blackout, ignora sia le reazione dei consumatori (aziende e privati) ai prezzi elevati, sia gli effetti delle politiche climatiche già intraprese dall’UE. 

Per quanto riguarda il primo punto, molti clienti non hanno interesse a consumare la stessa quantità di energia pre-crisi a un prezzo all’ingrosso nel frattempo anche quintuplicato. I consumatori, soprattutto dopo aver avuto il tempo per organizzarsi, risparmiano energia in reazione a prezzi eccezionalmente alti. Detto in altri termini, è irrazionale mettere in atto costose politiche per permettere un livello di consumo non più desiderabile agli attuali prezzi. Ai risparmi a breve, si aggiungeranno quelli strutturali, ottenuti grazie alla maggiore efficienza realizzata attraverso investimenti attivati proprio dai prezzi alti. 

Riguardo alle politiche su clima e transizione energetica, l’arrivo di nuova capacità da fonti rinnovabili, parallela alla progressiva elettrificazione dei consumi, porterà il consumo di gas in UE nel 2025 a circa 400 miliardi di m3 secondo Artelys rispetto ai circa 480 del 2019, una riduzione che da sola vale circa metà dell’import di gas russo nel 2019 e a cui si aggiungono i minori consumi, le politiche aggiuntive e la diversificazione degli approvvigionamenti gas. Le azioni dei piani europei “Fit for 55” e “REPowerEU”, mirate a raggiungere gli obiettivi climatici al 2030, ridurranno la domanda di gas europea del 40%.[2] 

Nell’ambito del mercato unico (e interconnesso) europeo, è impensabile immaginare un uso “autarchico” dell’energia. Anche nella prospettiva di diventare un “hub” di transito del gas verso l’Europa centrale, costruire infrastrutture dai costi elevati in Italia significherebbe pagare un prezzo elevato per una capacità d’importazione per il mercato europeo che, come abbiamo appena visto, non avrebbe senso economico, dal momento che anche esso è in fase di veloce trasformazione. 

Cosa significa che un’infrastruttura gas è “hydrogen-ready”? Quale ne è la fattibilità tecnica? Quale l’efficienza economica? 

Un’infrastruttura gas si considera “hydrogen-ready” se può accogliere indifferentemente gas e idrogeno. 

Gli attuali sistemi di trasporto, distribuzione e stoccaggio del gas sono perlopiù compatibili solo con modeste quantità di idrogeno miscelato nel gas (che è principalmente gas metano). Lo stesso vale per l’uso del gas: esso avviene oggi perlopiù attraverso apparecchi (caldaie, fornelli ecc) non compatibili con un’alimentazione a idrogeno. 

Se i nuovi asset gas fossero compatibili con un uso al 100% di idrogeno, questi avrebbero senso solo nel caso, ancora non definibile, che tragitti e volumi futuri dell’idrogeno siano gli stessi del gas oggi. 

Rispetto a un sistema ottimizzato per l’idrogeno puro (di cui esistono già migliaia di chilometri al mondo), un’infrastruttura polivalente (dunque in grado di trasportare sia idrogeno che gas) è più costosa, il che implica che una parte dei suoi costi sarà comunque persa una volta completata la decarbonizzazione. 

Ma la maggiore criticità economica della strategia delle reti polivalenti riguarda il fatto che non è per nulla scontato che in futuro avremo esigenze di trasporto dell’idrogeno simili per tipo e quantità a quelle attuali del gas. Infatti: 

  • L’idrogeno, per essere utile agli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia, sarà prodotto da fonti rinnovabili in luoghi perlopiù diversi dagli attuali giacimenti di produzione del gas e necessiterà di percorsi diversi e meno legati a grandi hub di origine. 
  • Il volume di idrogeno da movimentare sarà relativo ai soli usi energetici per la cui decarbonizzazione non è possibile un uso diretto locale di fonti rinnovabili. 
  • Quand’anche un trasporto di idrogeno tra hub sia in qualche caso necessario per sfruttare disponibilità di fonti rinnovabili di energia lontane dai luoghi di consumo, è tutto da verificare che non convenga trasportare tale energia direttamente in forma elettrica per usarla o stoccarla nel luogo di arrivo. Nel caso del Nord Africa, per esempio, è già prevista un’interconnessione Italia-Tunisia sia nei piani di Terna sia nell’ambito dei progetti di interesse comune europei.
  • Non è affatto assodato che l’idrogeno sarà in generale il vettore non elettrico più efficiente per trasferire a lunga distanza energia originariamente ottenuta da fonti rinnovabili. Il documento di IRENA “Global hydrogen trade 2022” indica, per esempio, l’uso di vettori a base di ammoniaca come soluzione altrettanto promettente. 

Per questi motivi, rendere hydrogen-ready l’attuale o futura infrastruttura gas si rivelerebbe in gran parte dei casi un inutile spreco di risorse.

L’idrogeno serve alla decarbonizzazione dell’energia e dell’industria?  

Sì.
L’idrogeno non è una fonte primaria di energia ma un suo vettore, utile alla decarbonizzazione per due motivi: 
 

  • Nel settore elettrico, sarà verosimilmente usato per stoccare energia da fonti rinnovabili nei momenti e nei luoghi in cui essa è superiore alla domanda. Questo stoccaggio, che nel breve termine può essere fatto con batterie o con forme di flessibilizzazione della domanda, a livello stagionale richiede soluzioni diverse come appunto l’idrogeno, che può essere prodotto con idrolisi dall’acqua con apporto di energia rinnovabile, stoccato e infine utilizzato con o senza una nuova trasformazione in elettricità. 
  • Nel settore manifatturiero pesante, l’idrogeno andrà a sostituire le fonti fossili in alcuni processi produttivi per i quali non è ancora efficiente la conversione agli usi elettrici. Si tratta di norma di processi industriali ad alta temperatura con consumi potenziali molto ridotti rispetto all’uso del gas attuale. Per esempio nel settore acciaio stimiamo un fabbisogno di 0,5 Mt di idrogeno all’anno ipotizzando un livello produttivo di 8 Mt di acciaio/anno in Italia.  

Il fatto che l’idrogeno serva, come abbiamo visto nella risposta sopra, non significa che sia sensato creare un’infrastruttura per trasportarlo e stoccarlo simile per dimensioni e caratteristiche a quella attuale del gas.

 Chi pagherebbe per nuove infrastrutture e forniture gas? 

Quale percentuale del costo dell’energia viene pagata in bolletta e quale con le tasse è una questione politica. In generale, più alta è la quota in bolletta maggiore è la responsabilizzazione dei consumatori, maggiori gli incentivi all’efficienza, maggiori le possibilità di rendere efficaci politiche di prezzo per discriminare tra energie fossili e no. 

Quel che di certo si può dire è che contribuenti o consumatori pagheranno fino all’ultimo euro, per decenni, sia i costi delle infrastrutture che decidiamo di costruire oggi sull’onda dell’emergenza, sia gli impegni commerciali di approvvigionamento di lungo periodo garantiti in qualunque forma dallo Stato. Non solo: al diminuire dei consumi, l’incidenza di questi oneri renderà sempre meno sostenibile il costo unitario del gas e quindi la sua funzione di “combustibile di transizione”. Tutti questi costi oltretutto si aggiungerebbero a quelli della decarbonizzazione, di cui rallenterebbero il processo (come argomentato in vari punti di questo documento). 

Il Governo sta valutando il supporto a nuovi contratti di fornitura di lungo periodo. Quali sono i rischi economici e climatici conseguenti? 

Innanzitutto, c’è un problema di trasparenza istituzionale. Dal momento che il gas viene acquistato dalle aziende e non dai governi, ogni qualvolta un governo fornisce garanzie ad accordi commerciali si espone a rischi di aiuti di Stato e in generale a opacità e conflitti di interessi, a maggior ragione se tal governo è azionista delle aziende interessate. 

In termini di rischio climatico, qualunque impegno, che sia su un contratto di lungo periodo o un’infrastruttura, può rendere artificiosamente conveniente per il futuro prolungare la dipendenza dal gas. Ciò rallenterebbe le politiche di decarbonizzazione, portando dunque a un doppio dividendo negativo.  

Nuova produzione nazionale di gas servirebbe alla sicurezza energetica? 

L’impatto potenziale di nuovi investimenti in produzione di gas nazionale sarebbe da un lato irrisorio, dall’altro perlopiù tardivo rispetto ai tempi in cui aspiriamo a emanciparci. Si veda il Q&A ECCO: Conviene sviluppare gas fossile italiano? FAQs 

Nuova produzione nazionale di gas servirebbe ad abbassare le bollette di consumatori e imprese? 

La provenienza nazionale del gas è irrilevante rispetto al prezzo pagato dal consumatore, perché i produttori nazionali vendono il gas al prezzo di mercato, che è ormai un prezzo europeo con forti interrelazioni globali. 

Il gas nazionale, poi, è un pessimo affare per il fisco e la comunità, visto che in Italia i concessionari dell’estrazione di risorse minerarie pagano royalty tra le più basse al mondo. Un vero e proprio regalo di risorse demaniali (cioè pubbliche). Si veda il Q&A ECCO: Conviene sviluppare gas fossile italiano? FAQs 

Nuova produzione domestica e internazionale di gas è compatibile con gli obiettivi climatici?  

No.

Investimenti in nuove esplorazioni e nuova produzione di gas non sono necessari per la sicurezza energetica dell’Italia e dell’Europa (vedi sopra) ma li legherebbero a nuove dipendenze da fornitori perlopiù instabili e al gas ben oltre i limiti temporali fissati per la decarbonizzazione. Oppure condannerebbero i paesi produttori ad investimenti che non verrebbero ripagati dalla domanda decrescente di gas in Europa.

Questo vale sia per i paesi del Mediterraneo, come Algeria ed Egitto, che per altri paesi del continente africano, come il Mozambico.

Inoltre, come mostra l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) nelle sue indicazioni sul percorso mondiale verso la neutralità climatica, nuovi investimenti al principio della catena del valore delle energie fossili sono incoerenti con le politiche climatiche, a maggior ragione nei paesi più ricchi. Uno studio[3] di Oil Change International sostiene, in maniera ancora più drastica, che per restare entro il carbon budget di 1.5°C anche una parte (il 40%) delle riserve già sviluppate a livello mondiale non dovrebbe essere utilizzata.

In altre parole: pensare di abbandonare quasi del tutto le energie fossili in poco più di un ventennio e nel contempo sviluppare nuovi giacimenti è un controsenso in cui costi, economici e climatici, peserebbero sulle nostre economie.

Coerentemente, a margine della COP26 di Glasgow l’Italia si è impegnata a evitare nuovi investimenti internazionali in fonti fossili d’energia a partire dalla fine del 2022.

Che garanzie di stabilità offrono i paesi fornitori di gas alternativi alla Russia? 

Se guardiamo alla collocazione geografica dei paesi considerati chiave per la diversificazione delle forniture, a eccezione degli Stati Uniti essi si collocano interamente nel Mediterraneo e in Africa. Queste regioni sono caratterizzate da situazioni di fragilità e rischio, anche laddove l’apparenza sia quella della stabilità. Dietro a leadership politiche durature, come quella algerina, o militari, come quella egiziana, si celano infatti numerosi elementi di fragilità economica, politica, sociale che rischiano di dare origine a nuova instabilità.  

Ma più rilevante dell’elemento della stabilità è quello della dipendenza. Anche laddove questi regimi riescano a sopravvivere a nuove ondate di dissenso e/o a shock sistemici come l’insicurezza alimentare o la crisi del debito che incombe, l’elemento su cui l’Italia e l’Europa dovrebbero riflettere è quello della creazione di nuovi rapporti di dipendenza. Diventando dipendenti da questi paesi per le forniture di gas, Italia ed Europa implicitamente rinunciano a esercitare su di essi pressione per il rispetto delle norme di diritto internazionale (come nel caso della politica degli insediamenti israeliani) e dei diritti umani (come nel caso delle detenzioni arbitrarie e delle sparizioni forzate in Egitto). Tale atteggiamento sembra mettere in discussione l’approccio europeo di condizionalità per adottare un principio di non interferenza. 

Qual è una strategia per un’energia sicura, economica e sostenibile? 

Un’energia sicura è anzitutto quella le cui forme di approvvigionamento non devono preoccuparci riguardo a effetti secondari gravemente negativi. Le energie fossili in un pianeta alle prese con la necessità di risolvere la crisi climatica sono quindi di per sé insicure. 

Ma sicurezza è anche la ragionevole possibilità di confidare sulla continuità della fornitura e della sua economicità. E anche qui la storia delle fossili (petrolio prima, gas oggi) è disseminata di shock da scarsità (e quindi alti prezzi) tipicamente seguiti da gravi recessioni delle economie colpite. 

L’indicatore di economicità oggi più usato per confrontare i costi dell’energia da diverse fonti è il LCOE (Levelized Cost Of Energy), una misura dei costi totali divisi per la produzione energetica attesa nella vita utile dell’impianto. Tutti gli osservatori internazionali identificano nelle fonti rinnovabili (fotovoltaico ed eolico in primis) quelle con LCOE più favorevole. 

La buona notizia è che le fonti rinnovabili sono sostenibili non solo in termini di livello di costi, come abbiamo visto, ma anche in termini di prevedibilità di questi costi, perché essi riguardano perlopiù costruzione, ammortamento e manutenzione, con positive ricadute sull’occupazione e la bilancia commerciale degli stati oggi importatori di fossili. In più, sono sostenibili in termini climatici e sanitari. Riguardo alla disponibilità di rete per accoglierle, al momento Terna, responsabile dello sviluppo della rete nazionale con piani approvati dallo stesso Governo, non ha mai messo in discussione la propria capacità di connettere gli impianti che serviranno a raggiungere gli obiettivi su energia e clima su cui il Paese si è impegnato. 

Uscire dal gas genera problemi occupazionali?  

La transizione in qualunque settore comporta la necessità di ricollocare le risorse, umane e non solo, da attività che si riducono ad altre che si sviluppano. Nello stesso tempo, il modo migliore per assicurare durevolmente occupazione e benessere futuri è favorire gli investimenti pubblici e privati nei settori promettenti rispetto agli obiettivi strategici della comunità (come la messa in sicurezza del clima) e non certo in quelli in declino o incompatibili con gli obiettivi stessi. 

Nello specifico, nella transizione da un sistema energetico basato sul gas (con una filiera piuttosto centralizzata) a uno basato sulle rinnovabili (con una pluralità di impianti di minori dimensioni) è verosimile  che l’intensità di lavoro aumenti e che le nuove opportunità siano più distribuite sul territorio, con effetti distributivi e sociali virtuosi. 

Note al testo
[1] Art.19-quater, DL 17/2022 convertito con modificazioni dalla L. 27 aprile 2022, n. 34.

[2] Calcoli effettuati da ECCO sulla base dei risparmi di gas derivanti da aumento rinnovabili ed efficienza energetica indicati nel Piano REPowerEu come addizionali al Fit for 55 (si veda tabella pagina 6 della Comunicazione). Per il consumo gas UE del 2021 si veda IEA.
[3] ‘Existing fossil fuel extraction would warm the world beyond 1.5º C’, studio pubblicato nel maggio 2022 sulla rivista Environmental Research Letters da parte di Oil Change International con ricercatori universitari e think tank di cinque paesi

Foto di David Mark da Pixabay

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