Q&A

Conviene sviluppare gas fossile italiano?

Q&A

Paghiamo meno il gas nazionale rispetto a quello importato?

No. Il gas è una materia prima omogenea. Che sia importato o estratto localmente, viene comunque immesso nella stessa rete e scambiato in mercati organizzati come prodotto indistinto a un prezzo che è influenzato solo dal rapporto tra offerta complessiva e domanda della macroregione di riferimento (nel nostro caso: l’Europa).

Un consumatore non solo non paga prezzi diversi per il gas locale, ma nella gran parte dei casi non è nemmeno in grado di sapere da dove venga il gas che sta consumando.

Un aumento della produzione può influenzare il prezzo di scambio in modo rilevante?

Una nuova fonte di gas potrebbe influenzare il prezzo europeo solo se fosse di dimensione rilevante rispetto al fabbisogno complessivo. Le intere riserve di gas naturale in Italia ammontano a meno di un solo anno di consumi (pari a 70 miliardi di m3/a – Dati MiTE-UNMG) e la produzione italiana annua non potrebbe quindi significativamente aumentare rispetto ai circa 5 mld di m3/a attuali. Di conseguenza, si tratterebbe di incrementi irrilevanti rispetto al rapporto offerta/domanda che genera il prezzo di mercato, e quindi rispetto al prezzo stesso.

Un aumento della produzione di gas potrebbe arrivare in tempo per mitigare l’attuale crisi dei prezzi energia? 

No. Identificare nuovi giacimenti, svilupparli e mettere in produzione pozzi richiede anni. Solo in caso di giacimenti già coltivati possono bastare mesi.

I prezzi a termine del gas europeo sono attualmente previsti calare, senza però raggiungere i livelli pre-pandemia, alla fine dell’inverno 2021-22. Al momento, inoltre, non c’è ragione di ritenere che gli inverni prossimi porteranno ad aumenti di prezzo paragonabili a quello recente, anche se è sensato continuare ad aspettarsi un prezzo generalmente volatile da tutte le fonti fossili di energia, come avviene da sempre.

Prezzo di mercato a parte, all’ingrosso costa meno il gas nazionale? 

Il gas nazionale è più economico in termini di costi di trasporto, essendo più vicino. I suoi costi di estrazione invece sono generalmente molto più alti, perché si tratta di giacimenti più piccoli e marginali rispetto a quelli dei grandi esportatori.

Da cosa dipende il prezzo effettivamente pagato da aziende e privati, oltre che dal prezzo del mercato all’ingrosso?

Il prezzo delle bollette dipende anche da molte componenti tariffarie regolate, soggette alle politiche nazionali. Se un paese europeo introduce un aiuto pubblico al prezzo, per esempio sui consumi di industrie energivore, questo causa un vantaggio competitivo artificioso per le aziende di quel paese e, tipicamente, un effetto a catena di sussidi sull’energia nei paesi le cui aziende competono sugli stessi mercati.

Il risultato finale sono segnali sbagliati alle aziende, distorsioni della concorrenza, disincentivi alla decarbonizzazione proprio per i soggetti i cui investimenti in tecnologie pulite sono decisivi per la transizione.

Avrebbe invece senso una politica energetica e climatica europea integrata anche riguardo alle scelte tariffarie del prezzo al dettaglio dell’energia.

I produttori nazionali pagano royalty in linea con quelle delle altre economie di mercato? 

No, pagano molto meno rispetto alla generalità degli altri paesi produttori (fonte Mise) (altre fonti: Deloitte, EY, Senato) con sistemi simili di governance delle concessioni petrolifere. Si tratta di fatto di un incentivo in Italia allo sfruttamento eccessivo di questa risorsa demaniale, ed è poco rilevante che da noi sia più alta l’imposta sui redditi d’impresa per gli stessi concessionari, perché essa non è disegnata per compensare specificamente la perdita di capitale naturale legata all’utilizzo delle risorse minerarie.

Alla COP26 di Glasgow, l’Italia si è impegnata a terminare il supporto pubblico agli investimenti nello sfruttamento di fonti fossili all’estero, incluso il gas. E a casa nostra? 

Il Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, alla Conferenza delle parti sul clima di Glasgow (COP26) si è impegnato – per l’Italia e insieme ad altri venti paesi e istituzioni –  a terminare il supporto pubblico nei progetti fossili esteri. Una scelta, questa, mirata anche a evitare di “esportare” attività dannose.

Sempre durante la COP26 di Glasgow, l’Italia ha anche aderito, con la qualifica di “friend”, alla Beyond Oil and Gas Alliance (Boga), una coalizione internazionale in cui governi e stakeholder si impegnano a terminare le licenze e le concessioni per nuove esplorazioni di giacimenti di petrolio e gas nei territori in cui hanno giurisdizione, e di individuare un percorso di progressivo termine della produzione esistente di petrolio e gas in linea con gli obiettivi climatici di medio e lungo periodo, come la neutralità climatica al 2050 (sul modello della politica danese). La qualifica di “friend” non impegna l’Italia ad adottare queste misure ma manda un forte segnale di condivisione degli obiettivi e di fatto “un impegno a impegnarsi” nel breve termine.

Una ripresa della produzione nazionale è in netta contraddizione con queste posizioni e mina la credibilità internazionale dell’Italia, paese G7, e la sua diplomazia climatica e cooperazione internazionale.

Gli investimenti in nuova estrazione di gas sono coerenti con l’obiettivo di emissioni nette zero al 2050 e l’obiettivo di 1,5°?

Non secondo la IEA (agenzia dell’energia dei Paesi OCSE) che nel suo studio “Net zero by 2050” indica che l’obiettivo richiede l’immediata sospensione di nuovi investimenti nell’upstream delle energie fossili.

Il rischio che, anche in Europa, alcuni paesi accelerino l’estrazione in barba ai paesi più virtuosi esiste, come in molti altri frangenti simili, e si risolve rendendo più integrata la politica climatica europea, o in generale con la diplomazia, non certo con una corsa a chi fa più danni climatici.

Dobbiamo aspettarci un aumento dei consumi di gas fossile in Italia? 

No. I consumi di gas in Italia sono in calo strutturale dal picco del 2005 (meno 14% tra il 2005 e il 2019) grazie all’efficienza energetica, le rinnovabili e le congiunture economiche. La domanda di gas in Italia e in Europa è attesa in forte calo se gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 saranno raggiunti (una stima conservativa della IEA per l’Europa prevede un calo del 24% tra il 2019 e il 2030 e del 86% al 2050). La generazione elettrica italiana, che oggi si basa sul gas per circa metà della produzione interna, prevede in prospettiva un abbandono del gas e un suo utilizzo già ora limitato alle ore in cui la somma di rinnovabili, accumuli e demand response non è sufficiente alla copertura della domanda. Secondo le raccomandazioni della IEA, i paesi G7 dovrebbero abbattere le emissioni della generazione elettrica non oltre il 2035 per essere in linea con gli impegni di neutralità climatica al 2050 e limitare il cambiamento climatico entro l’1,5, obiettivo che l’Italia si è fortemente impegnata a rispettare nel corso della sua Presidenza G20 e della COP26 nel 2021. Il gas è il primo responsabile di emissioni di CO2 nel settore termoelettrico (66% nel 2019).

Conclusione 

Espandere la produzione di gas fossile italiano non avrebbe alcun impatto rilevante nel prezzo di mercato del gas e quindi per le bollette di imprese e consumatori. Al contrario, minerebbe la credibilità internazionale dell’Italia sul clima.

La volatilità del prezzo delle energie fossili è certamente una questione rilevante e che non scomparirà. Il modo più efficace – oltre che l’unico coerente con gli obiettivi climatici – per superare questa criticità è ridurre la dipendenza dal gas puntando su rinnovabili, efficienza, reti, stoccaggi e flessibilizzazione della domanda. Nel dibattito di questi mesi l’efficienza energetica e la cultura del risparmio sono completamente assenti quando invece sono le componenti essenziali e prioritarie per affrontare una crisi energetica.

 

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Photo by Nathan Forbes on Unsplash

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