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Il nuovo Piano Strategico di Eni sarà in linea con gli obiettivi della COP28?

Mercoledì 13 marzo è prevista una riunione del Consiglio di Amministrazione di Eni. Tra i temi in agenda ci sarà l’approvazione del Piano Strategico 2024-2027. A soli tre mesi dal termine della storica COP28, che ha sancito il consenso per uscire dai combustibili fossili, è lecito chiedersi se e come il piano di Eni sarà allineato agli obiettivi climatici internazionali e a quelli indicati dalla scienza. 

La grande partecipazione delle aziende oil&gas alla COP28, confermata dal numero di rappresentanti presenti a Dubai, doveva essere un’opportunità di dimostrare il loro impegno concreto nell’azione globale contro il cambiamento climatico. Impegno che si traduce in percorsi ordinati di progressivo abbandono dei vecchi modelli di business fondati su ricerca, estrazione, lavorazione e trasporto di gas e petrolio. 

Molte sono state le iniziative proposte a riguardo poco prima che i rappresentanti di 197 Paesi raggiugessero Dubai. Tra queste, il rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) su “L’industria del petrolio e del gas nella transizione verso emissioni nette zero” indica che, per raggiungere la neutralità climatica (net-zero) entro il 2050 e limitare l’innalzamento della temperatura media globale a 1,5°C:  

  • non vi è più spazio per nuove esplorazioni e nuova produzione di idrocarburi, in quanto quella esistente è sicura e sufficiente per soddisfare la domanda energetica attuale e futura 
  • il consumo di combustibili fossili dovrebbe diminuire del 75% al 2050  
  • il 50% degli investimenti delle aziende oil&gas dovrebbe essere destinato all’energia pulita, principalmente rinnovabili, entro il 2030.  

Oltre 200 aziende a livello globale, tra cui Coca Cola, DHL Group, Unilever, Poste Italiane e anche una grande ex dell’oil&gas come la danese Ørsted, hanno chiesto esplicitamente ai governi, in una lettera prima della COP28, di affrontare la causa principale del cambiamento climatico: lo sfruttamento dei combustibili fossili. Per ora i grandi assenti sono le aziende oil&gas, responsabili del 15% di emissioni di gas serra a livello globale nelle fasi di produzione, trasporto e lavorazione degli idrocarburi, senza considerare le emissioni derivanti dal consumo.  

L’accordo di Dubai è certamente un testo di compromesso che raccoglie istanze varie e spesso molto diverse tra loro. Tuttavia, ciò non riduce la priorità e la chiarezza dell’accordo nel delineare i requisiti minimi di impegni per i governi e il settore privato. L’approvazione del testo del Global Stocktake indica infatti che tutte le Parti sono d’accordo, come priorità in cima alla lista e “obiettivo-cappello” degli impegni, sulla necessità di uscire gradualmente dai combustibili fossili nei sistemi energetici.Questo, già a partire da questa decade, con l’obiettivo di raggiungere a livello globale zero emissioni nette – net zero. Un impegno che governi e aziende dovrebbero affrontare tenendo in considerazione aspetti di giusta transizione, ossia prevedere una trasformazione dei settori coinvolti in modo ordinato ed equo e che possa tenere conto di un approccio differenziato tra il Nord e il Sud globale. Servirà inoltre accelerare e ridurre in modo sostanziale le emissioni da altri gas serra (oltre la CO2), in particolare le emissioni di metano entro il 2030. Allo stesso modo, il testo indica la necessità di triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030: obiettivo importante ma che secondo l’IEA ridurrebbe solo del 30% il gap delle emissioni per mantenere in vita l’obiettivo di 1.5°C. Per poter dar seguito e mantenere vivi gli impegni, tutto questo deve essere necessariamente accompagnato e sostenuto da una gigantesca mobilitazione delle risorse finanziarie.   

La realtà ad oggi è ben diversa. Come ricorda il sopracitato report dell’AIE, le compagnie oil&gas stanno “osservando la transizione energetica dalla riva del fiume”. A seguito del boom di profitti registrati nel 2022 – in cui Eni, le americane ExxonMobil e Chevron, la francese TotalEnergies e le britanniche BP e Shell hanno collettivamente raggiunto circa 215 miliardi di dollari in profitti causati dall’instabilità del mercato e la volatilità dei prezzi, molte aziende hanno deciso di rivedere i propri piani di investimento per ampliare progetti di esplorazione di idrocarburi e, quindi, di prevedere un aumento della produzione nel breve e medio periodo. Al contrario, hanno reinvestito solo una parte trascurabile dei profitti nella transizione verso le energie pulite: circa 20 miliardi di dollari nel 2022, ovvero il 2,5% della spesa totale in conto capitale.  

Non si può però negare che la COP28 abbia segnato una svolta, marcando l’inizio di un percorso di uscita dai combustibili fossili. Dato il loro ruolo determinante nella possibilità di raggiungere gli obiettivi climatici ci si aspetta che i prossimi piani strategici aziendali, ossia la roadmap verso il raggiungimento degli obiettivi a breve e medio termine, mostrino chiaramente come le aziende intendano declinare gli obiettivi siglati in seno alla COP nel proprio piano di transizione.  

Un primo e principale indicatore di successo sarà l’allocazione del Capex, ossia le spese in conto capitale, che andrà a verificare su quale tipo di investimenti scommetterà un’azienda nel lungo periodo.  

Guardando all’Italia, la presentazione del prossimo piano strategico di Eni, prevista per metà marzo, rappresenta quindi un’occasione per l’azienda di mostrare ai propri investitori un piano di investimenti che poggia su un percorso di transizione credibile e adeguato, senza lasciare spazio a distrazioni o rallentamenti nel percorso verso l’obiettivo dell’1,5°C.  

Lo scorso piano strategico, che pianificava gli investimenti per il periodo 2023-2026, andava in una direzione non allineata agli obiettivi climatici. Eni, infatti, prevedeva di aumentare la produzione di idrocarburi del 3-4% rispetto alla quota attuale fino al 2026 per poi mantenerla stabile fino al 2030. Obiettivo riflesso nel Capex, dove più del 70% degli investimenti era stato preventivato per aumentare esplorazione e produzione di idrocarburi in numerosi progetti in Africa e Medio Oriente.  

Che l’azienda abbia intenzione di proseguire con un aumento di produzione di idrocarburi è riflesso anche nelle politiche aziendali di remunerazione dei dirigenti. Un nuovo studio del think tank Carbon Tracker vede Eni al primo posto tra le maggiori 25 aziende oil&gas che utilizzano obiettivi di crescita della produzione di combustibili fossili per determinare la retribuzione dei dirigenti. Un impegno chiaramente in rotta di collisione con le conclusioni della COP28 e con lo scenario Net-Zero Emissions (NZE) dell’AIE, che indica come non siano più necessari investimenti in nuovi progetti oil&gas e che addirittura prevede la chiusura di alcuni progetti già in produzione.  

Negli ultimi anni, le pressioni sulle aziende petrolifere rispetto ai loro impegni nella lotta contro il cambiamento climatico sono aumentate. Il Global Climate Litigation Report del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) rivela che le persone si rivolgono sempre più spesso ai tribunali per combattere la crisi climatica. A dicembre 2022, sono state depositate 2.180 cause relative al clima in 65 giurisdizioni. Non di meno lo sono gli appelli verso Eni, attualmente chiamata in causa nel primo contenzioso climatico in Italia che vede le ONG ReCommon e Greenpeace mettere in luce la responsabilità sui “possibili impatti distruttivi sul clima del pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili”. Eni, dal canto suo, ha declinato l’invito a partecipare al programma “Petrolio in onda sul servizio pubblico di Rai3, rifiutando un confronto che verteva proprio sul ruolo delle aziende nella transizione energetica. Al di là del risultato, il solo fatto che membri della società ricorrino a sempre più frequenti appelli giudiziari denota un deficit della politica e delle aziende oil&gas nel rispondere in modo efficace e credibile alla necessità climatica. 

Dunque, un piano credibile di investimenti aziendali non può non tener conto degli impegni negoziati da tutti i Paesi alla COP- degli scenari allineati a 1.5°C elaborati dall’IPCC e dall’AIE e, infine, dalle principali iniziative internazionali che stabiliscono i criteri per costruire piani industriali allineati al net-zero, come l’Integrity Matters lanciato dal Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres e l’iniziativa Fossil to Clean di We Mean Business.  Ciò implica l’adozione di requisiti minimi a partire da questi impegni, scenari e benchmark al fine di mantenere una traiettoria di temperatura che resti entro l’obiettivo di 1.5°C. Tra questi: 

  • azioni per la riduzione delle emissioni lungo tutta la catena del valore (scope 1, 2 e 3) nell’immediato, sia per le emissioni di gas serra che di metano, con obiettivi di breve, medio e lungo termine, sia in termini di intensità che assoluti; 
  • queste azioni devono necessariamente essere trainate da un’allocazione delle spese che dedichi almeno il 50% del Capex totale verso progetti di energia pulita entro il 2030, in aggiunta agli investimenti necessari per ridurre le emissioni Scope 1,2 e 3
  • la COP chiede un approccio razionale che sfrutti le infrastrutture e la produzione esistente pianificando in parallelo l’uscita rapida ma ordinata dalle fonti fossili (“transitioning away from fossil fuels”). Non servono quindi nuove esplorazioni di petrolio e gas. La produzione e le infrastrutture gas esistenti sono infatti sufficienti a soddisfare i requisiti di sicurezza energetica dell’Italia e dell’Europa anche nel nuovo scenario geopolitico, per gli scenari energetici allineati agli obiettivi climatici, in cui la domanda di gas, e dunque il volume di importazione, cala trainata dalla penetrazione delle rinnovabili e dell’efficienza energetica (si veda il nuovo studio “Lo stato del gas: scenario 2030, 2040 e 2050”).  L’AIE avverte inoltre che lo sviluppo di nuovi progetti porterebbe a grandi rischi finanziari, tra cui il rischio di stranded assets, ovvero investimenti che andranno persi in quanto non più remunerativi. Nel caso di Eni e in quanto azienda partecipata statale, ciò ingabbierebbe il sistema paese e i paesi produttori, in primis quelli nel Mediterraneo e in Africa, in un futuro insostenibile e insicuro;  
  • seguendo le indicazioni IEA e IPCC, l’utilizzo della Carbon Capture and Storage (CCS) deve essere necessariamente limitato ai settori hard-to-abate, e indirizzato alle sole emissioni non altrimenti evitabili, ovvero lì dove non vi siano alternative disponibili, come nel caso della gestione delle emissioni di processo derivanti da alcuni processi industriali. Non può quindi diventare una distrazione nel percorso di abbattimento delle emissioni.  

Il nuovo Piano strategico di Eni sarà approvato dal Consiglio di Amministrazione dell’azienda nella riunione fissata per il 13 marzo. Solo allora sapremo se l’attuale leadership aziendale sarà in grado di rendere Eni una protagonista credibile della transizione.

Foto di drpepperscott230

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