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L’innovazione non aspetta, ora è la politica che deve muoversi

Stop alla vendita di auto con motore a combustione interna entro il 2035. Sembra un cambiamento enorme, ma in realtà, a ben guardare non condizionerà le nostre vite nell’immediato, e neppure tra 5-10 anni. Si tratta primariamente di un segnale al mercato. Il quale, come testimoniano le posizioni più ambiziose espresse da grandi aziende come Volkswagen, Mercedes, Volvo, Stellantis o ENEL – per i sistemi di ricarica e bus elettrici – sta già andando nella direzione dell’auto elettrica.

Un segnale al mercato, ma anche ai vari governi, che sono chiamati a implementare una nuova strategia industriale per il settore dell’automotive. Una buona notizia, considerando che da lungo tempo il settore è in crisi, come testimonia il numero di catene produttive chiuse in Italia negli ultimi anni. Lo stop alle vendite, sarà per l’Italia un bagno di sangue solo se si continuerà con l’approccio di freno alla svolta elettrica che molti governi hanno impresso negli ultimi dieci anni. Il cambio di paradigma deve essere visto come un’opportunità per rifondare il sistema Italia, mettendolo all’avanguardia in un mercato – quello della mobilità elettrica – in forte espansione, e come monito a non perdere questo treno, che potrebbe essere l’ultimo per rilanciare un settore chiave per la nostra economia.

Un’opportunità, questa, colta da molti attori del panorama politico e industriale italiano, a partire dai sindacati. Le posizioni espresse dal responsabile automotive di Fiom CGIL, il più grande sindacato nazionale, abbracciano la transizione verso l’elettrico ma chiedono, giustamente, che il governo metta sul tavolo il supporto necessario per riconvertire il settore e formare e ricollocare i lavoratori diretti e dell’indotto.

Posizione favorevole al cambiamento espressa chiaramente anche dalla maggior parte delle case automobilistiche europee, americane e asiatiche, che hanno  già fissato importanti obiettivi aziendali di elettrificazione.

E poi c’è la politica, divisa tra chi ha votato in favore del provvedimento a livello europeo (tra cui PD, M5S, Verdi) e chi invece si oppone e cerca di ritardare la “data di fine” per la vendita delle auto a combustione interna, come ad esempio la nascente forza centrista, la Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Questa opposizione nasce dalla volontà di difendere l’attuale occupazione del settore. Obiettivo assolutamente condivisibile, ma legato a una visione limitata e miope dei mercati di riferimento dell’Italia. I grandi colossi asiatici, americani e, se pur in ritardo, anche europei, stanno già muovendo enormi capitali verso la mobilità elettrica. Il rischio per chi si oppone è di rimanere indietro nello sviluppo della filiera industriale, perché la rivoluzione elettrica non aspetta la politica, ma premia l’innovazione e la velocità di investimento.

Opporsi oggi alla transizione verso l’elettrico non significa difendere posti di lavoro ma creare le basi per una crisi occupazionale del settore tra cinque o dieci anni, quando sarà troppo tardi per riposizionarsi all’interno del mercato globale come sistema Paese. Oggi, invece, ci sono il tempo e i capitali per costruire un vantaggio competitivo e permettere all’Italia e all’Europa di porsi in una posizione di leadership nel mercato globale della mobilità elettrica.

È importante ricordare che dal 2035 non sarà vietato utilizzare le auto a benzina, diesel o gas, ma ne sarà vietata esclusivamente la vendita. Nell’immediato, dunque, nessun cambiamento per gli automobilisti. Nei prossimi anni, il più probabile effetto sarà un crollo dei prezzi dell’auto elettrica per consentire un accesso universale a questo bene. Questo avverrà perché la produzione mondiale si sta velocemente spostando in massa verso questa tecnologia, creando economie di scala e avviando la produzione di auto per tutti i segmenti di mercato, incluso un crescente numero di utilitarie.

Se oggi il mercato globale si sta spostando, a prescindere dalle posizioni dell’Unione europea, è perché il vettore elettrico è maturo e conveniente per un uso massiccio privato, pubblico e commerciale. Per l’Italia, opporsi a questa transizione, andando in direzione opposta al trend globale, significherebbe trovarsi tra pochi anni a inseguire, con pochissime possibilità di recuperare il terreno perduto.

Per tutte queste ragioni economiche, occupazionali, sociali e ambientali, di fronte a questo vento di cambiamento non ha senso costruire muri, ma piuttosto un mulino e sfruttare il vento.

 

Articolo del 4 luglio, pubblicato su Corriere Buone Notizie

Photo by Stephan Müller

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