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Il clima al centro della politica estera

Pur essendo tra i paesi G20 maggiormente esposti al rischio di instabilità derivante dagli impatti del cambiamento climatico, l’Italia non dedica ancora sufficienti risorse né attenzione all’analisi e alla gestione di questa sfida.  

Oltre all’estrema fragilità del proprio territorio – emersa ancor più prepotentemente quest’anno con siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi – l’Italia deve fare i conti con la fragilità derivante dalla propria posizione geografica. Protesa nel Mediterraneo, crocevia tra Medio Oriente e Africa, la nostra penisola è collocata esattamente al centro di uno dei maggiori hotspot del cambiamento climatico. Eppure, tra le molteplici relazioni che Roma intesse con i paesi della sponda sud e con l’Africa – politiche, economiche, energetiche – la questione climatica è spesso secondaria e non integrata 

Il nostro Paese dovrebbe invece trattare la minaccia climatica come una vera minaccia per la sicurezza nazionale, non solo a parole. Gli impatti del cambiamento climatico sui sistemi alimentari, idrici, energetici nella regione del Mediterraneo e in Africa diventeranno sempre di più fattori acuti di instabilità. In queste regioni, la vulnerabilità ai cambiamenti climatici rischia di rallentare il percorso verso uno sviluppo sostenibile e di contribuire a inasprire tensioni e conflitti a fronte di risorse sempre più scarse. Questo non solo rischia di ripercuotersi negativamente sulle relazioni con il nostro Paese, ma può dare origine a sfide transfrontaliere quali ondate migratorie e distorsioni nelle catene del valore. Per esempio, i gravi episodi di siccità registratisi tra il 2006 e il 2011, e che causarono pesanti danni al raccolto agricolo mondiale, sono tra i fattori alla base delle rivolte del pane, poi diventate note come Primavere arabe, in diversi paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. 

Ai rischi derivanti dagli impatti del cambiamento climatico si uniscono i rischi derivanti da una mancata transizione energetica o da una transizione non socialmente giusta, in particolar modo nei paesi dipendenti dalla rendita da esportazione di idrocarburi (stati rentier). A fronte di una diminuzione del 41% della domanda europea di gas al 2030 stimata a seguito del piano europeo REPowerEU, la significativa riduzione delle entrate statali altererà il patto sociale alla base degli stati rentier, riducendo i margini d’azione governativi per il mantenimento della pace sociale. Il rischio, in questi paesi, è il collasso economico e il conseguente inasprirsi delle tensioni sociali che può sfociare in instabilità politica, radicalizzazione del dissenso, scoppio della violenza. L’Algeria, Paese con il quale l’Italia ha recentemente investito per aumentare significativamente l’accesso alle riserve di gas, rappresenta il principale esempio in questo senso.  

Quello che l’Europa e l’Italia non stanno facendo è bilanciare attentamente il bisogno di breve periodo di aumentare le importazioni di gas da fornitori non russi, possibile sfruttando le infrastrutture e giacimenti esistenti e sufficiente a mettere in sicurezza il sistema combinato ai risparmi, con gli obiettivi climatici. Le scelte di investire in nuove riserve e nuove infrastrutture fossili sono al momento slegate dai fabbisogni reali del paese e dall’impatto degli obiettivi di decarbonizzazione di REPowerEU. 

Per questi motivi, è fondamentale tenere conto degli sviluppi reali della domanda e degli approvvigionamenti e infrastrutture esistenti, prima di investire in nuova capacità e contratti di lungo periodo con paesi terzi. Inoltre, l’Italia deve riconoscere – come già fanno diversi stati e come recentemente fatto anche dalla NATO – che il cambiamento climatico è una questione centrale di sicurezza e politica estera. Ciò significa ripensare l’approccio attuale, tenendo conto dell’impatto del cambiamento climatico sull’instabilità, in particolare nel nostro vicinato, e sulle dinamiche geopolitiche globali. Dando più priorità ad azioni di supporto alla transizione energetica nei paesi partner slegata dai combustibili fossili e di prevenzione e risposta agli impatti climatici 

Prima la sicurezza 

In primo luogo, occorre tenere conto della sicurezza climatica nella definizione delle strategie di sicurezza energetica. Dal momento che il settore dell’energia (elettricità, edifici e trasporti) è responsabile per il 70% delle emissioni di CO2, ogni decisione circa nuovi investimenti in infrastrutture e combustibili fossili sia a casa nostra che in paesi terzi deve essere adeguatamente valutata alla luce degli obiettivi di decarbonizzazione e dei costi della non azione climatica su questo fronte.  

In secondo luogo, è necessario che l’Italia si doti di una strategia di sicurezza climatica ancorata in un sistema di gestione del rischio climatico, che includa il monitoraggio di tutti i fattori di instabilità, una valutazione di impatto – all’interno e all’esterno dei propri confini – e obiettivi da raggiungere per prevenire, ridurre e prepararci agli impatti attraverso interventi e strumenti specifici. 

Affinché le dichiarazioni a sostegno della lotta al cambiamento climatico si traducano in azioni concrete, è necessario che l’Italia rafforzi il proprio tessuto istituzionale e proiezione internazionale sul clima, in particolar modo quello del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale e del Ministero della Transizione Ecologica, inserendo personale aggiuntivo dotato di competenze specifiche in ambito clima ed energia. A guidare l’azione diplomatica italiana sul clima deve essere un Inviato speciale, che operi al fianco e con il sostegno del Ministero degli Esteri, ma sia dotato di autonomia decisionale e credibilità internazionale.  

Rivedere le basi delle relazioni e più diplomazia 

È poi fondamentale che il supporto alla transizione energetica e all’adattamento vengano inclusi nelle relazioni bilaterali con i paesi del Mediterraneo e dell’Africa, sottoforma di azioni e interventi concreti. Ciò significa in primo luogo evitare di legare a doppio filo il nostro paese e i paesi produttori di idrocarburi con contratti di fornitura a lungo termine e nuovi investimenti in produzione aggiuntiva. Al contrario, investire nello sviluppo delle rinnovabili, per le quali esiste nella regione un ampio potenziale, e accrescerne la quota nel mix elettrico dei paesi produttori, permetterà di realizzare in maniera graduale e condivisa la transizione tanto nella regione quanto in Italia. In parallelo, saranno necessari interventi a supporto della diversificazione delle economie al momento quasi interamente dipendenti dalle entrate da combustibili fossili, in modo da rispondere all’esigenza della creazione di posti di lavoro per una popolazione giovane e in crescita, e garantire in questo modo la pace sociale. Un importante strumento per la mobilitazione di investimenti a questo scopo è quello dei Partenariati per la giusta transizione (Just Energy Transition Partnerships), su esempio di quello siglato tra Sudafrica e UE/Francia/Germania/Regno Unito nel novembre 2021 per una transizione ordinata dal carbone all’energia pulita (coal-to-clean). 

È necessario poi un engagement deciso e ambizioso a livello internazionale, facendo leva sul ruolo dell’Italia nei consessi multilaterali quali G7, G20 e le Conferenze annuali sul clima (COP). Obiettivo principale di questo engagement deve essere la mobilitazione da parte dei paesi industrializzati delle risorse finanziarie, stimate in 5 trilioni l’anno, necessarie a favorire la transizione e la costruzione di resilienza agli impatti nei paesi in via di sviluppo 

Politiche economiche 

Infine, è necessario integrare le esigenze della transizione nelle nostre azioni di diplomazia economica. Agendo in sinergia con il Ministero dello Sviluppo Economico, l’azione esterna del nostro Paese deve supportare una strategia industriale e commerciale in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione. Ciò significa per esempio stipulare nuove partnership per l’acciaio verde, il cemento a basse emissioni e la chimica verde con i paesi chiave del Mediterraneo in questi settori, come Turchia ed Egitto, in ottica di creare uno spazio di libero scambio per prodotti verdi nel Mediterraneo; cooperazione per l’approvvigionamento, la lavorazione e il riciclo di materiali critici con i paesi africani e asiatici; e creare nuove catene del valore che siano resilienti agli shock (dalla pandemia ai costi dell’energia) e permettano al nostro tessuto industriale di mantenere e aumentare la competitività contemporaneamente costruendo nuovi mercati verdi e offrendo supporto ai paesi emergenti in modo tale che tutti possano partecipare e contribuire alla riduzione delle emissioni. Riducendo così anche la necessità di ricorrere ad approcci protezionistici e punitivi. 

 

Foto di Bruno – Pixabay

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