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Quale strategia italiana per l’Africa?

Dal 4 all’8 settembre, la diplomazia climatica internazionale – governi, istituzioni e società civile africana -, si riunirà a Nairobi per l’Africa Climate Week e l’Africa Climate Summit 2023. Incontri che hanno come obiettivo dichiarato il raggiungimento di una posizione comune, per i paesi africani, alla COP28 che si svolgerà a Dubai a dicembre.

Il Presidente del Kenya, William Ruto, nelle dichiarazioni in vista dei summit, ha chiarito le priorità e gli obiettivi di questi incontri e le aspettative dell’Africa nei confronti degli attori globali. I paesi africani vogliono essere considerati come partner alla pari nella lotta al cambiamento climatico e chiedono che il sistema finanziario internazionale sia adatto a sostenere gli obiettivi di transizione energetica del continente.

La visione è quella di permettere all’Africa di svilupparsi saltando la fase “fossile” dell’industrializzazione, concentrandosi sulla produzione di energia da fonti rinnovabili. Uno sviluppo possibile solo attraverso adeguati strumenti finanziari, funzionali per favorire la crescita e l’elettrificazione dell’economia dei paesi africani. Per questo, il presidente keniota preme affinché la finanza climatica sia al centro del dibattito dei summit di Nairobi.

Finora, la politica estera in Africa dei principali paesi occidentali, in particolar modo le storiche potenze coloniali, è stata spesso criticata, definita “paternalista” o “neocoloniale” da parte di numerosi paesi africani, alcuni dei quali caratterizzati da grande instabilità. I paesi occidentali sono quindi chiamati a ridefinire il proprio approccio, e il summit di Nairobi rappresenta un’occasione importante.

La questione dello sviluppo in Africa ha naturalmente una dimensione transcontinentale e l’attuale governo italiano ne ha fatto una priorità. Lo sviluppo del continente sarà infatti una priorità della presidenza italiana del G7 ed è alla base di una serie di iniziative lanciate dal governo, come “il Processo di Roma”, e il “Piano Mattei” che verrà presentato al prossimo summit Italia – Africa di novembre. Se l’Italia vuole presentare delle proposte credibili per una rinnovata cooperazione italo-africana, sarà dunque importante prestare la giusta attenzione agli incontri di Nairobi.

 

I legami fra cambiamento climatico e povertà

È assodato che gli effetti del cambiamento climatico colpiscono in maniera sproporzionata i paesi più fragili e le comunità più vulnerabili. L’agricoltura di sussistenza o tradizionale è più esposta ai danni causati da siccità o inondazioni e la carenza di risorse, infrastrutture e istituzioni efficaci rende più difficoltosa la ricostruzione post-catastrofe naturale. Questi problemi sono particolarmente sentiti in Africa, un continente che, secondo la classificazione ONU, include 33 dei 46 paesi più poveri al mondo. Con l’acuirsi degli effetti del cambiamento climatico, secondo le più recenti previsioni ONU (WMO e IPCC, fra gli altri), si stima che solo in Africa, da qui al 2030, circa 700 milioni di persone saranno obbligate a lasciare le loro case, diventando così “migranti climatici”. Gli effetti di queste migrazioni non si limiteranno ai confini nazionali o geografici del continente ma riguarderanno tutte le zone limitrofe, fra cui naturalmente le sponde del Mediterraneo. Il legame fra clima, migrazioni e sicurezza, è trattato nel dettaglio in una nostra recente pubblicazione. Per queste ragioni, è indispensabile che la comunità internazionale si attivi per cooperare alla realizzazione di ambiziosi progetti di mitigazione e adattamento in Africa.

Un potenziale rinnovabile inespresso in Africa

Il potenziale di sviluppo delle rinnovabili in Africa è altissimo ma largamente ignorato.  Stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) evidenziano che l’Africa possiede, a livello mondiale, circa il 60% di tutte le aree più adatte alla produzione di elettricità da fotovoltaico. Tuttavia, solo l’1% della potenza fotovoltaica installata è in Africa.

L’Africa rimane un’area i cui investimenti esteri nel settore energetico riguardano ancora quasi esclusivamente le fonti fossili, malgrado il fatto che già 12 Paesi africani, che rappresentano circa il 40% delle emissioni del continente, abbiano adottato una strategia che prevede decarbonizzazione e zero emissioni entro la metà di questo secolo. Non si tratta di dichiarazioni velleitarie: secondo uno scenario al 2030 proposto dalla IEA, l’80% della nuova potenza installata nel continente potrebbe essere rinnovabile, a parità di investimenti attualmente previsti in fonti fossili. A titolo di esempio, con la semplice riallocazione dei capitali inizialmente previsti dai soli investitori cinesi per lo sviluppo di centrali a carbone (prima che Pechino decidesse, nel 2021, di sospendere il finanziamento di questa tecnologia all’estero), si potrebbe finanziare buona parte della potenza fotovoltaica prevista dallo scenario. Nello scenario IEA, peraltro già verificatosi nel 2022 a causa della crisi dei prezzi dell’energia, nella maggior parte dei casi la realizzazione di impianti a fonte rinnovabile risulterebbe più competitiva rispetto allo sviluppo di fonti fossili, gas naturale compreso.

La falsa promessa di sviluppo delle risorse fossili

La produzione e l’esportazione di idrocarburi ha vissuto un grande sviluppo negli ultimi decenni, favorito negli ultimi anni dalla crisi energetica conseguente l’invasione russa dell’Ucraina. Diversi paesi africani hanno concluso accordi commerciali con partner europei, Italia in primis, per sostituire il gas russo con quello africano, consegnato in Europa tramite i gasdotti mediterranei o via nave sotto forma di GNL. Queste relazioni commerciali, pubblicizzate come elemento fondante per una prosperità condivisa, si basano però su dinamiche tradizionali fra Nord e Sud del mondo che sono state spesso definite “predatorie”. La presenza di grandi compagnie petrolifere internazionali ha permesso all’Africa di produrre ed esportare grandi quantità di idrocarburi, senza alcun beneficio per la popolazione locale della ricchezza creata. Al contrario, in diversi paesi produttori, e con una significativa presenza di compagnie occidentali, i ricavi e le royalties relativi al gas e al petrolio hanno spesso nutrito corruzione e clientelismo e rafforzato disuguaglianze e ingiustizia sociale. Basti pensare alla Nigeria, esportatore di petrolio da diversi decenni e in cui circa il 40% della popolazione vive ancora senza accesso all’elettricità; o al Mozambico, in cui lo sviluppo del gas non ha portato i benefici economici attesi, generando spesso conflitti, corruzione e distorsioni economiche. In questi paesi si verifica spesso un fenomeno noto come “resource curse” (“maledizione delle risorse naturali”), per cui l’aumento dell’indebitamento, della corruzione e dell’instabilità sono la conseguenza di grandi scoperte di petrolio e gas, persino prima dell’avvio della produzione.

Anche se si riuscisse a mettere in pratica una più equa redistribuzione dei ricavi dovuti alla produzione di gas e petrolio, vi è un’elevata probabilità che le economie dei paesi produttori rimangano vittime della dipendenza dalle esportazioni di fossili. Oltre alla fragilità intrinseca dovuta a economie nazionali legate a una componente del bilancio molto variabile, gli investimenti in infrastrutture per la produzione e distribuzione di idrocarburi rischiano di diventare degli stranded assets, e quindi insostenibili, in tempi relativamente brevi. Gli scenari a medio termine della IEA indicano un significativo rallentamento della domanda globale di gas naturale e di petrolio alla fine del decennio corrente, anche e soprattutto in ragione degli obiettivi di decarbonizzazione delle maggiori economie mondiali. È quindi necessario che la crescita dei paesi africani poggi su un modello sostenibile di sviluppo, dotato di basi più solide ed economicamente vantaggiose nel lungo periodo.

I limiti degli strumenti e degli istituti finanziari esistenti

Anche gli strumenti messi a disposizione da parte della comunità internazionale devono essere migliorati. Da più voci – ONG ma anche attori istituzionali -, piovono critiche sia sulla loro forma sia sulla loro sostanza. Non sono esenti dalle critiche neppure le Just Energy Transition Partnership (JETP), finanziate dalle economie più avanzate, dalle istituzioni finanziarie multilaterali e dai partner privati (soprattutto gruppi bancari). Per lo sviluppo dei progetti, le JETP includono criteri sociali, sanitari, economici, climatici e ambientali e, per la loro ampia portata, rappresentano il principale strumento per la cooperazione allo sviluppo basata sulla transizione energetica. Fra le critiche mosse nei confronti delle JETP, la principale riguarda la natura dei finanziamenti, che spesso avvengono sotto forma di prestiti, rischiando così di appesantire il debito pubblico già insostenibile per un gran numero di paesi africani.

Anche in termini di sostanza, i livelli di investimento in progetti di sviluppo sostenibile sono ancora molto inferiori alle necessità del continente: nel 2022 sono stati meno di 30 Md$, poco più del 10% rispetto alle reali necessità, stimate in 280 Md$. In particolare, è la finanza privata internazionale che si mostra poco recettiva alle opportunità di sviluppo sostenibile del continente, mentre continua a investire in nuovi progetti fossili secondo schemi di sfruttamento tradizionale delle risorse naturali africane. Nel 2021, meno dell’1% dei 434 Md$ investiti in rinnovabili nel mondo è stato dedicato al continente africano.

Questo modello di sviluppo non sostenibile continua ad avere una grande influenza sui decisori africani. Come sottolineato da diverse centinaia di associazioni della società civile africana, vi è il rischio che l’African Climate Summit riproponga strumenti e idee considerati “finte soluzioni”, quali i mercati internazionali delle emissioni di gas a effetto serra o progetti di geo-ingegneria, che permettono alle grandi aziende occidentali di continuare le loro attività inquinanti, a scapito delle reali necessità del continente. Con lo slogan “Make the Africa Climate Summit African”, la società civile africana chiede che a Nairobi i decisori politici e gli attori economici si muovano verso un modello di crescita sostenibile basato su energie rinnovabili e circolarità.

La crescita verde come faro per la strategia italiana per l’Africa

Le relazioni fra l’Italia e i suoi partner africani hanno una forte componente energetica, legata in particolare alla presenza storica della compagnia petrolifera nazionale ENI in diverse regioni, come il Nordafrica o l’Africa occidentale. Viste le criticità legate a un modello di sviluppo per l’Africa basato sullo sfruttamento delle fonti fossili, è opportuno che l’Italia approfitti della propria capacità di proiezione politica ed economica per rispondere alle richieste e alle proposte che saranno formulate ai summit di Nairobi e che sono già state in parte anticipate dal presidente keniota Rufo nei mesi scorsi, anche alla luce delle critiche sollevate all’architettura finanziaria globale.

Con la firma, nel luglio scorso, del Memorandum con la Tunisia, che prevede un fondo apposito per lo sviluppo delle energie rinnovabili, l’Italia ha dimostrato di essere un interlocutore e un mediatore serio e affidabile per l’Africa. Il testo dell’accordo cementa ufficialmente il legame fra migrazioni e necessità di uno sviluppo economico sostenibile che si appoggi sulle energie rinnovabili, slegato dallo sfruttamento degli idrocarburi.

L’Italia può fornire all’Africa un enorme contributo sia in termini finanziari –reindirizzando garanzie e crediti all’export verso progetti rinnovabili – sia in termini di know-how, appoggiandosi sull’esperienza e le tecnologie delle organizzazioni pubbliche e private nazionali.

Le dichiarazioni della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in occasione della conferenza su migrazioni e sviluppo organizzata dal Governo italiano nel luglio scorso a Roma mostrano la volontà dell’Italia di porsi come partner alla pari dei paesi africani per la crescita e lo sviluppo sostenibile. I prossimi grandi eventi internazionali quali la COP28 di Dubai e, soprattutto, la presidenza italiana del G7 2024 le daranno la possibilità di farlo concretamente.

Photo by Nothing Ahead

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