Lo shock dei prezzi dell’energia ha fatto decollare (senza sussidi pubblici, a differenza di una dozzina di anni fa) le rinnovabili, il risparmio e l’efficientamento energetico. Allo stesso tempo ha causato reazioni politiche che alla deprivazione da gas rispondono con investimenti pubblici sul gas.
Un errore. Poiché si tratta di una fonte energetica che ci espone a volatilità del prezzo – caratteristica tipica delle energie fossili -, ed è chiaramente in un trend di discesa strutturale della domanda. Il -10% dei consumi di gas in Italia nel 2022 non è lontano dalla media europea, e la IEA stima per l’Italia un calo del 4,5% all’anno della produzione elettrica a gas da qui al 2025.
Significativo notare lo scollamento tra dove vanno i soldi privati e le politiche annunciate. Mentre il Governo si appresta a mettere soldi sulle reti del gas, chiunque progetti un nuovo edificio o una ristrutturazione importante lo fa perlopiù con sistemi di riscaldamento e cottura senza utilizzo di gas.
Le fonti rinnovabili infatti accelerano (il triplo delle installazioni rispetto alla media dei 10 anni precedenti nel 2022) e hanno enorme potenziale (Elettricità Futura stima 85 GW di nuovi impianti al 2035 senz’alcun aiuto pubblico se non le autorizzazioni). Eppure sono ancora frenate sia dal processo autorizzativo, sia dai sussidi alle fossili che (dati MASE) pesano quasi il doppio di quelli residui alle rinnovabili (nel frattempo questi ultimi scesi ulteriormente e destinati ad azzerarsi nel giro di qualche anno).
Dopo lo shock dei prezzi dell’energia, qualunque cliente cerca contratti elettrici non legati al prezzo del gas. Ma oggi, l’unico modo per ottenerlo è staccarsi completamente dalla rete elettrica. Una soluzione estrema ed economicamente inefficiente che farebbe inoltre perdere allo Stato una fonte indispensabile di accise e di parafiscalità. Perché non permettere piuttosto di coprire tutti i consumi con contratti di approvvigionamento da impianti (eventualmente nuovi) da fonti rinnovabili?
Ciò che oggi non lo rende possibile è la necessità del gas per bilanciare la rete elettrica. Necessità che però verrà meno quando questo ruolo da parte delle centrali a gas verrà sostituito da quello degli accumuli (batterie incluse), che sono una componente decisiva per decarbonizzare il settore elettrico e per raggiungere gli obiettivi del PNIEC.
La buona notizia è che l’Italia è già avviata alla preparazione di aste pubbliche per l’acquisizione di capacità di accumulo, e attende il via libera europeo riguardo alla disciplina degli aiuti di stato per proseguire. Oltre agli accumuli, le tecnologie di flessibilità della domanda (basate anch’esse su accumuli e altre forme di modulazione dei consumi approntate però presso i siti di consumo) sono in grado di ridurre ulteriormente il ricorso a centrali a gas per modulare la rete.
Fornire al sistema elettrico questa flessibilità il prima possibile, insieme alle fonti rinnovabili, e renderla disponibile a fornitori e clienti è la soluzione per emanciparci dal gas e centrare gli obiettivi 2030 e 2035 (quando il sistema elettrico dovrà essere senza emissioni nette, secondo l’impegno italiano presso il G7).
In tutto questo, pensare che l’Italia diventi il passaggio mediterraneo (hub) del gas è intempestivo, non credibile ed economicamente temerario.
Questo non solo perché il gas viene e verrà consumato in volumi sempre più bassi come abbiamo visto, ma anche perché:
- Si tratta di un impegno infrastrutturale fattibile solo con soldi pubblici (anche quelli riconducibili a RepowerEU e PNRR), che se sprecati sul gas non saranno disponibili per altri usi. A riprova di questo, nessun rigassificatore o interconnector da almeno un decennio si fa con capitale privato. Gli investitori non mettono soldi su un’industria in progressivo ridimensionamento a meno che non ci sia una garanzia pubblica. Ma usare denaro pubblico (o garanzie pubbliche) per nuove infrastrutture gas implica un rischio di responsabilità di danno erariale da parte di chi persegue questa strategia.
- Non è affatto detto che l’Italia possa diventare un “hub” prima di altri paesi che già hanno più rigassificatori (in primis la Spagna).
- L’Italia ha da anni (e questo è valso anche nel 2022) tutti i tubi di importazione usati in modo parziale, a eccezione del TAP. Dunque se il potenziale di diventare un hub ci fosse in termini di disponibilità di export e import dei paesi con cui siamo collegati, lo saremmo già diventati.
- Infine, è falso che le infrastrutture di trasporto gas realizzate ora siano riutilizzabili con l’idrogeno. Questo è possibile solo con un mix limitato di idrogeno nel gas. E anche se le nuove infrastrutture potessero funzionare 100% a idrogeno, non c’è alcun motivo di immaginare per l’idrogeno volumi e direttrici di transito simili a quelle del gas oggi.
La soluzione all’aumento dei prezzi dell’energia dunque non è alzarli ulteriormente (o impedirne una discesa rapida) con infrastrutture inutili da scaricare in bolletta (o sulle tasse, spostando il problema). Non si tratta nemmeno di rivoluzionare i mercati energetici europei. Infatti, se il prezzo del gas ha fatto alzare quello dell’elettricità non è colpa del mercato, ma del gas stesso.
Per questo la proposta di ECCO di revisione del mercato elettrico europeo, disponibile integralmente qui, si focalizza sulle azioni per favorire fonti rinnovabili, accumuli e flessibilità della domanda attraverso una serie di azioni coordinate:
- Accelerare lo sviluppo di accumuli anche attraverso aste pubbliche come quelle già previste in Italia e attualmente in attesa del via libera della Commissione europea su disciplina aiuti di stato.
- Tradurre tale capacità in certificati di stoccaggio che aiutino a coprire il rischio-profilo nell’associare produzione da rinnovabili e consumi.
- Adottare prezzi dell’energia dinamici per tutti i clienti e sfruttare i misuratori di nuova generazione (che in Italia abbiamo già pagato e installato in buona parte della rete).
- Aggiornare il capacity market perché smetta di avvantaggiare le nuove centrali a gas (assicurando se mai che non chiudano in modo incontrollato quelle esistenti) e perché faciliti con programmi pluriennali l’installazione dell’infrastruttura necessaria all’attività degli aggregatori di flessibilità della domanda.
Photo by cottonbro studio