COP28

Il ruolo delle aziende del gas e del petrolio alla COP28

“L’industria O&G si trova quindi di fronte a una scelta, a un momento di verità, per quanto riguarda il suo impegno nella transizione verso l’energia pulita. […] La scomoda verità con cui l’industria deve fare i conti è che il successo delle transizioni energetiche pulite richiede una domanda di petrolio e gas molto più bassa, il che significa ridurre le operazioni di estrazione di petrolio e gas nel tempo, non espanderle. Non c’è modo di aggirare questo problema.” Così annuncia Fatih Birol, Direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), in occasione del lancio del nuovo rapporto “L’industria del petrolio e del gas nella transizione verso emissioni nette zero”. Il rapporto indica chiaramente cosa significa per i produttori allinearsi con l’Accordo di Parigi e con l’obiettivo di 1,5 °C.

Che ruolo giocheranno le aziende del gas e del petrolio nella transizione energetica? Quest’anno, per la prima volta dall’inizio delle COP, queste aziende parteciperanno attivamente alla conversazione sui negoziati sul clima. Gli Emirati Arabi Uniti, che ospitano la conferenza per conto del gruppo Asia-Pacifico, hanno nominato presidente della COP28 Sultan Ahmed Al Jaber, già amministratore delegato della principale compagnia nazionale di gas e petrolio ADNOC.  I piani di espansione della produzione di idrocarburi dell’azienda emiratina, attualmente i maggiori tra tutte le aziende petrolifere mondiali, sono in conflitto proprio con la dichiarazione dell’AIE.

Oltre che dalla scienza, la responsabilità delle aziende del gas e del petrolio nella crisi climatica è stata sottolineata in molteplici istanze, da Papa Francesco al Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, il quale ha affermato chiaramente che “l’era dei combustibili fossili ha fallito”, evidenziando come la causa fondamentale del cambiamento climatico sia la produzione e l’utilizzo di combustibili fossili. Quest’anno, come mai prima, è stata espressa l’urgenza di raggiungere al più presto il phase-out, ossia l’abbandono dei combustibili fossili. Dal Vertice per il clima di New York di settembre all’ultimo rapporto AIE, molte sono state le iniziative e le voci sollevate per sottolineare la necessità che la COP28 affronti l’accelerazione del processo di uscita dai combustibili fossili.

Una questione scottante durante i negoziati sarà infatti quella sulla riduzione delle emissioni (ovvero la mitigazione) e, quindi, su quale percorso di transizione energetica sia allineato all’obiettivo 1,5°C. L’appello al phase-out, infatti, si scontra inevitabilmente con le priorità in agenda della presidenza emiratina che, sebbene riconosca il ruolo delle aziende petrolifere e dei combustibili fossili in questione, circoscrive la soluzione al phase-down, ossia una riduzione graduale della domanda e dell’offerta delle fonti fossili e alla eliminazione delle emissioni attraverso tecniche di cattura e sequestro di carbonio, invece che nella riduzione della domanda e dell’offerta. Questa posizione raccoglie inoltre le istanze e l’interesse a perpetrare un’economia basata sulle fonti fossili non solo dei paesi produttori (come Arabia Saudita, Russia, Iran e in parte anche Stati Uniti) ma anche delle maggiori aziende – statali e internazionali – di idrocarburi. La COP28 sarà quindi un’opportunità unica per le aziende del gas e del petrolio di dimostrare un impegno serio nell’azione globale contro il cambiamento climatico.

Sino ad ora, tuttavia, i comportamenti aziendali sono stati tutt’altro che virtuosi nonostante un marketing spinto sulla sostenibilità che non rappresenta il peso reale degli investimenti in gas e petrolio rispetto alle energie pulite. Complice l’instabilità del mercato e la volatilità dei prezzi causati dall’invasione russa dell’Ucraina, il 2022 sarà ricordato come l’anno dei profitti record ottenuti dalle “Big seven[1]“, ovvero le sette grandi compagnie private o, come nel caso di Eni, partecipate, e dalle maggiori aziende di proprietà statale. Per citare qualche cifra, le americane ExxonMobil e Chevron, la francese TotalEnergies e le britanniche BP e Shell assieme hanno raggiunto 200 miliardi di dollari di profitti in un solo anno. Allo stesso modo, Eni ha registrato un utile netto di 13,3 miliardi di euro. Profitti sostanziosi che, tuttavia, non sono stati reindirizzati verso investimenti in fonti pulite. In effetti, le maggiori aziende petrolifere, tra cui BP, Shell ed Eni, hanno reinvestito una parte trascurabile dei profitti nella transizione verso le energie pulite: tra il 2019 e il 2022 Eni ha investito in media solamente l’8% del capex totale annuo in Plenitude, azienda controllata che integra la produzione di energia rinnovabile con la commercializzazione di energia elettrica e gas a clienti finali.

Al contrario, le strategie delle compagnie dei prossimi anni, come ad esempio quella di Eni, rivelano come più del 70% degli investimenti verrà utilizzato per ampliare progetti di esplorazione e produzione di idrocarburi, nonché prevede l’approvazione finale d’investimento per numerosi progetti in Africa e Medio Oriente. Per esempio, l’azienda italiana ha numerosi interessi proprio negli Emirati Arabi Uniti. Presente dal 2018, Eni possiede varie concessioni per la produzione di idrocarburi ed è anche attiva nel settore della raffinazione, dove collabora con ADNOC. Una collaborazione che si è ulteriormente rafforzata nell’ultimo anno e che vede le due aziende impegnate a portare avanti l’avvio di un impianto di cattura e sequestro del carbonio (CCS) associato a un progetto di recupero potenziato del petrolio per il giacimento onshore di Bab, negli Emirati. Mentre in Africa Eni rappresenta il terzo più grande sviluppatore di nuove risorse di gas e petrolio ma che, come mostrano gli scenari AIE, non sono necessari nello scenario di decarbonizzazione.

La CCS sarà uno dei temi scottanti alla COP di Dubai in quanto strettamente legato alle negoziazioni sul phase-out dei combustibili fossili. Questa tecnologia, per il suo ruolo potenziale nel catturare, e quindi abbattere, le emissioni di CO2 derivanti da processi produttivi, viene fortemente supportata dalle aziende e dai paesi produttori di gas e petrolio, perché permetterebbe di continuare ad estrarre senza immettere CO2 in atmosfera. Il rischio è infatti che gli impegni sull’uscita dai combustibili fossili vengano fortemente indeboliti dalle pressioni da parte di questi attori sulla necessità di inserire la questione dell’abbattimento della CO2 all’interno del testo finale. Il rischio è che questo si trasformi in un lasciapassare a continuare a produrre e usare le fonti fossili purché siano “abbattute”, cioè utilizzando tecnologie per la cattura di emissioni. Avvisaglie di questo rischio sono già emerse dai difficili negoziati per definire la posizione negoziale generale dell’UE. Ciononostante Bruxelles ha raggiunto un buon compromesso grazie alla leadership del Governo spagnolo in qualità di Presidenza europea, riconoscendo che tecnologie come la CCS “esistono su scala limitata e devono essere utilizzate per ridurre le emissioni soprattutto nei settori difficili da decarbonizzare” e “non dovrebbero essere utilizzate per ritardare l’azione per il clima in settori in cui sono disponibili alternative di mitigazione fattibili, efficaci ed efficienti in termini di costi, in particolare in questo decennio critico.”

Di conseguenza, l’accordo su una definizione chiara e sul ruolo della CCS sarà probabilmente una delle battaglie decisive del vertice sul clima di Dubai. Si rischia infatti di favorire aziende che facendo leva sulle tecnologie di abbattimento, la cui efficacia e scalabilità commerciale non sono state ancora comprovate, stanno rallentando la decarbonizzazione e i cui piani di transizione non risultano essere allineati all’obiettivo di Parigi. La scienza lo conferma: gli scenari dell’AIE e dell’IPCC dimostrano che l’uscita da tutti i combustibili fossili deve essere il fulcro di qualsiasi strategia basata sulla scienza per evitare il superamento di 1,5°C di riscaldamento e prevenire impatti climatici irreversibili. Secondo il nuovo rapporto dell’AIE dedicato al settore O&G, l’uso di combustibili fossili dovrebbe diminuire del 75% al 2050 nello scenario di decarbonizzazione. Le emissioni derivanti dalle operazioni di produzione, trasporto e processo di combustibili fossili (cosiddette Scope 1 e Scope 2 e di cui le emissioni di metano rappresentano il 50%) dovrebbero essere ridotte di oltre il 60% entro il 2030 rispetto ai livelli attuali. In parallelo, il 50% degli investimenti dovrebbe essere destinato all’energia pulita entro il 2030. Ad oggi, invece, l’industria investe in energia pulita solamente il 2,5% della propria spesa totale.

È necessario, quindi, che le aziende si dotino di impegni e piani di transizione credibili e adeguati, senza lasciare spazio a distrazioni o rallentamenti nel percorso verso l’1,5°C. Questa è una delle principali raccomandazioni del rapporto “Integrity Matters: Net Zero commitments by Businesses, Financial Institutions, Cities and Regions” lanciato in occasione della COP27. Il rapporto stabilisce definizioni rigorose di cosa significa allineamento al net-zero, chiarendo che gli attori non statali debbano prevedere non solo impegni a lungo termine ma anche obiettivi a breve termine basati sulla scienza, nonché piani di transizione dettagliati che mostrino riduzioni immediate delle emissioni e delle spese in conto capitale allineate a questi obiettivi e con il loro percorso di azzeramento.

Sulla stessa lunghezza d’onda e insieme alle richieste degli organismi internazionali, degli scienziati, della società civile e del mondo imprenditoriale che vuole cambiare, si pone l’iniziativa Fossil to Clean di We Mean Businness, una coalizione di organizzazioni no profit che supportano la riconversione delle imprese. Questa iniziativa vuole aiutare le aziende a identificare un percorso sostenibile di uscita graduale dei combustibili fossili entro il 2040 seguendo precisi obiettivi e criteri. Come l’impegno a non effettuare nuove esplorazioni e a non sviluppare nuovi giacimenti; raggiungere emissioni di metano prossime allo zero al più tardi entro il 2030; pubblicare un Piano d’Azione per la Transizione Climatica (PATC) con precisi obiettivi di riduzioni di produzione in determinate fasce temporali e aumento degli investimenti puliti; e fissare obiettivi basati sulla scienza.

COP28 può rappresentare quindi l’occasione per sostenere un accordo internazionale per una rapida ma equa uscita dai combustibili fossili, che fornisca sostegno finanziario necessari alla decarbonizzare ma anche per l’adattamento e per far fronte ai costi delle perdite e danni. Una proposta in questo senso potrebbe partire dalla richiesta di Guterres alle economie sviluppate di tassare i profitti delle compagnie di gas e petrolio e reindirizzare parte delle entrate per aiutare le nazioni colpite dai disastri climatici.


NOTE

[1] Il rapporto dell’AIE (2023) considera BP, ConocoPhillips, Chevron, Eni, ExxonMobil, Shell e TotalEnergies come le sette grandi major (Big Seven) ovvero società quotate in borsa negli Stati Uniti e in Europa che storicamente si sono concentrate sullo sviluppo di grandi progetti ad alta intensità di capitale e le loro divisioni upstream, ovvero di esplorazione e produzione, rappresentano la maggior parte del loro valore finanziario e dei loro ricavi.

 

Foto di Jayrocky

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