Elezioni 2022

Idrogeno per la transizione energetica? Non siamo ancora pronti (purtroppo)

Intervista con Nicola Armaroli, Dirigente di Ricerca, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)

L’idrogeno è considerato da molti, non ultima la Commissione europea, come una soluzione importante per accompagnare la transizione energetica. 

In vista dell’imminente tornata elettorale, caratterizzata da una presenza senza precedenti dei temi energetici nei programmi dei partiti, abbiamo parlato con Nicola Armaroli, Dirigente di Ricerca presso il CNR, e autore del libro Emergenza Energia – Non abbiamo più tempo (Dedalo, 2020) per comprendere le potenzialità dell’idrogeno, il suo eventuale utilizzo nell’industria, nei trasporti, nel residenziale e le tecnologie attualmente disponibili per produrlo e utilizzarlo. 

Partiamo da un presupposto importante: l’idrogeno molecolare (H2) è quasi inesistente sulla Terra. Infatti, sottolinea Armaroli, l’idrogeno non è una fonte di energia, bensì un vettore. Quindi l’idrogeno è necessario produrlo 

 

Professor Armaroli, sentiamo spesso parlare di idrogeno grigio, verde e anche blu. Ci aiuta a fare chiarezza su queste definizioni? 

“La differenziazione è semplice: i colori definiscono in modo convenzionale i modi di produrlo. Circa il 95% dell’idrogeno a livello globale è prodotto a partire da combustibili fossili, principalmente metano (CH4): è il cosiddetto idrogeno grigio. La produzione di idrogeno da combustibili fossili genera quasi il 3% del totale delle emissioni mondiali di CO2, una quota non indifferente. Di conseguenza non possiamo considerare l’idrogeno grigio o marrone (cioè prodotto dal carbone) come vettori sostenibili per la transizione energetica. 

Vi è poi l’idrogeno blu, dove la materia prima di partenza è ancora il metano, ma la CO2 dovrebbe essere iniettata nel sottosuolo, invece che scaricata in atmosfera. Attenzione però: l‘idrogeno blu è un puro slogan commerciale, poiché – a parte l’iniezione nel sottosuolo di CO2 per stimolare la produzione di petrolio da giacimenti ormai esauriti – non ci sono prospettive tecnicamente accessibili ed economicamente sostenibili per implementare questo processo nella produzione di idrogeno. Infatti, non vi è un solo impianto al mondo che produca oggi idrogeno blu, solo progetti sulla carta.  Per produrre idrogeno blu occorrono, enormi quantità di energia e grandi siti di stoccaggio geologico dedicati e certificati. E naturalmente molti, molti soldi.  

Il restante 5% dell’idrogeno mondiale è prodotto mediante il processo di elettrolisi, dove l’acqua viene scissa in idrogeno e ossigeno: il cosiddetto idrogeno verde. Anche in questo caso però, la situazione è complessa. Ad esempio gli elettrolizzatori lavorano al meglio con un flusso continuo di elettricità, cosa non possibile con tutte le fonti rinnovabili. Non a caso, i principali siti di produzione di idrogeno verde sono alimentati da impianti idroelettrici.  

Quindi sulla carta le tecnologie di produzione di idrogeno sono tre, ma di fatto per ora solo il 5% è funzionale alla decarbonizzazione. Non illudiamo cittadini e imprenditori che oggi abbiamo a disposizione grandi quantità di idrogeno sostenibile. Produrre idrogeno verde costa oggi almeno il triplo dell’idrogeno grigio. È difficile prevedere una competitività economica prima di 5-10 anni e molto dipenderà dalla rapidità di evoluzione della transizione energetica e dall’evoluzione dei costi del metano e delle rinnovabili. 

Adesso e per diversi anni l’elettricità rinnovabile servirà per accrescere la quota di elettrificazione dei consumi finali. In altre parole, prima di un decennio sarà difficile avere eccessi di produzione rinnovabile da dedicare alla produzione di idrogeno verde.” 

 

Professor Armaroli, sentiamo spesso di parlare di infrastrutture hydrogen ready, ci spiega di cosa si tratta? 

“Trasportare idrogeno, ha un costo energetico – e quindi economico – elevato. Trasportare una certa quota di energia come gas idrogeno richiede il triplo di energia nei compressori rispetto al metano. Questo è uno dei motivi, non l’unico, per cui si preferisce produrre l’idrogeno in loco, laddove serve, evitando di trasportarlo. 

Nonostante questo, alcuni sostengono che l’attuale infrastruttura gas sia hydrogen ready, ossia adatta per il trasporto di idrogeno, ma credo siano state fatte eccessive semplificazioni  

Infatti, l’opzione di utilizzo dell’attuale infrastruttura gas al 100% è irrealistica, principalmente a causa delle differenti proprietà chimico-fisiche dell’idrogeno rispetto al metano. Per trasportare idrogeno in un’infrastruttura costruita per il trasporto di metano andrebbero adeguate gran parte delle condotte, delle valvole e i compressori. Occorrerebbe inoltre una messa a punto di regolamenti e standard a livello internazionale che al momento sono assenti. In ogni caso, le infrastrutture andrebbero analizzate caso per caso, e i costi di sostituzione sarebbero spesso molto elevati.  

Per utilizzare l’attuale infrastruttura qualcuno propone il blending, ossia mescolare l’idrogeno con il metano. Sarebbe possibile farlo con una quota fino ad un massimo del 20% di idrogeno senza adeguamenti invasivi della rete. Tuttavia, “tagliare” volumi di metano con idrogeno, significa anche diminuirne il contenuto energetico, con impatti non trascurabili su diversi utilizzatori finali e risparmi di CO2 modesti: parliamo di circa un 6% con la miscela CH4/H2 80:20. Infine, diminuire il contenuto energetico del gas significa abbassare l’efficienza complessiva della filiera e questo è evidentemente in contrasto con una gestione razionale dei sistemi industriali.”  

 

Abbiamo quindi un gap incolmabile in termini di efficienza? 

“Per produrre un chilogrammo di idrogeno verde servono circa 55 chilowattora di elettricità, che è il consumo elettrico settimanale medio di una famiglia italiana. A sua volta, tale quantità di idrogeno corrisponde energeticamente al consumo medio giornaliero di metano di una famiglia italiana. È evidente che consumare una settimana di elettricità per produrre un giorno di metano, non è una grande idea. Meglio utilizzare direttamente quei 55 kWh per scaldare/raffrescare casa con una pompa di calore: più semplice, almeno 5 volte più efficiente e meno costoso. Mi pare sia difficile chiedere di più.” 

 

Quali sono i settori di utilizzo dell’idrogeno?  

“Partiamo dalla mobilità. A questo proposito – e per ulteriori approfondimenti – è utile rilevare che ho redatto, assieme ad un gruppo di colleghi, il rapporto “Decarbonizzare i Trasporti”, per il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, ripreso anche in questo articolo. 

Oggi sul mercato esistono circa 500 modelli di auto a batteria contro tre a idrogeno. Questo dimostra che le case automobilistiche sono consapevoli che l’opzione idrogeno nel trasporto leggero non abbia grandi prospettive. Il motivo di fondo è l’efficienza. Come detto, l’idrogeno è necessario produrlo, trasportarlo, comprimerlo in bombole e infine “disfarlo” in una cosiddetta cella a combustibile per produrre finalmente l’elettricità che muove il mezzo. Sarebbe più semplice utilizzare quest’ultima direttamente per caricare una batteria. In sostanza un’auto a batteria consuma un terzo dell’energia di un’auto a idrogeno, per fare gli stessi chilometri. Inoltre, un’infrastruttura di ricarica per le batterie esiste ed è in continua crescita: la rete elettrica è ovunque.  Al contrario l’infrastruttura di produzione e distribuzione dell’idrogeno non c’è. Qui emerge una trappola da cui non è facile uscire: non ci sono automezzi a idrogeno perché non c’è idrogeno, ma è anche vero che non c’è idrogeno perché non ci sono automezzi a idrogeno. Insomma manca un mercato, che non cresce, anche perché le ragioni dell’efficienza in tanti casi lo sconsigliano. Tanti casi ma non tutti. 

 

Di quali casi si tratta? 

Vi sono opzioni dove l’idrogeno può giocare in futuro un ruolo importante, laddove le alternative scarseggiano. Un settore può essere il trasporto pesante, in particolare treni e navi, mentre per il trasposto su gomma (camion, autobus) il mercato sembra invece andare progressivamente verso le batterie. 

Per il trasporto ferroviario parliamo di tratte non facilmente elettrificabili nelle zone montane con gallerie, per quello navale parliamo essenzialmente di grandi stazze e lunghe percorrenze. In entrambi questi settori invece esistono già soluzioni a batteria su tratte brevi. 

L’idrogeno verde giocherà un ruolo importante anche e soprattutto nella sintesi di combustibili sintetici liquidi che potranno essere utilizzati sia per il trasporto navale che aereo. Un’opzione che richiede disponibilità di carbonio non fossile ottenibile ad esempio dai rifiuti. Bruciare combustibili sintetici non comporta miglioramenti nella qualità dell’aria rispetto a quelli tradizionali ma, non essendo di origine fossile, sono rilevanti nell’ottica della decarbonizzazione. Anche in questo caso però non possiamo illudere cittadini e imprenditori sull’immediata disponibilità a costi accessibili e in quantità significative. Questi obiettivi sono ancora molto lontani nel tempo.  

Nel caso delle navi vi è anche la possibilità di utilizzare combustibili e vettori alternativi come metanolo o ammoniaca, ma anche queste non sono opzioni vicine. 

Il problema di fondo della decarbonizzazione del trasporto pesante resta che i tre fattori congiunti che caratterizzano i combustibili fossili liquidi (elevata densità di energia, enorme disponibilità, infrastruttura di trasporto diffusa a livello mondiale) sono estremamente difficili da replicare con qualsiasi alternativa. 

A tutte queste considerazioni tecniche dovremmo affiancare anche considerazioni di carattere etico e pratico, andando oltre una semplice transizione energetica e puntando a un’effettiva transizione ecologica. Dobbiamo cominciare a chiederci se non sia il caso di riportare almeno parte della produzione vicina al consumo invece di spostare forsennatamente milioni di tonnellate di merci ogni giorno per terra, mare e cielo.  

Infine, il settore dove l’utilizzo dell’idrogeno ha maggiori possibilità di sviluppo, grazie anche alle quantità in gioco e alla possibilità di creare distretti dedicati alla produzione e al consumo (hydrogen valleys), è quello dell’industria pesante: acciaierie, cementifici, cartiere, ecc. A Taranto, ad esempio, servirebbero annualmente circa 16 gigawatt di fotovoltaico dedicato solo alla produzione di idrogeno verde per la ex-ILVA, considerando una produzione di acciaio di 6 Mt/anno. Si tratta purtroppo di un valore enorme, se si pensa che in tutta Italia abbiamo installato, in 20 anni, circa 20 GW.” (Questi dati sono in linea con una recente analisi di ECCO –  “Una strategia per l’acciaio verde” – che mostra che per riconvertire questo stabilimento a idrogeno verde è necessario produrre 0,5 milioni di tonnellate (Mt) di idrogeno l’anno, considerando un target produttivo di 8 Mt/anno di acciaio. 

 

Ma possiamo immagazzinare idrogeno? 

Come sapete, quando l’Italia raggiungerà l’obiettivo di produzione di 100 gigawatt di rinnovabili all’anno, questa sarà concentrata durante i mesi estivi. L’elettricità in eccedenza potrà essere utilizzata per produrre idrogeno, immagazzinandolo come accumulo stagionale. Una prospettiva di medio/lungo periodo ma utile per il bilanciamento di un sistema elettrico decarbonizzato, colmando il deficit di rinnovabili della stagione invernale. Tali volumi di produzione di energia rinnovabile sono teoricamente possibili entro il 2030, ma c’è ancora parecchia strada da percorrere per rendere le tecnologie di immagazzinamento dell’idrogeno efficienti e sostenibili. Un’opzione è immagazzinarlo nel sottosuolo, ma l’idrogeno è una molecola molto reattiva e può essere letteralmente consumato da processi geochimici o batterici. Quindi la ricerca di siti adatti non è banale. 

 

Quindi, professor Armaroli, qual è la prospettiva di utilizzo di idrogeno nella decarbonizzazione? 

“Lo sviluppo dell’idrogeno ha senso solo se accoppiato a quello delle rinnovabili elettriche, con priorità di utilizzo nei settori dell’industria e dei trasporti pesanti e dell’elettricità come accumulo stagionale. Non ci sono altri modi per farlo e utilizzarlo in maniera sostenibile, efficiente ed economica per la decarbonizzazione.  

Infine, un aspetto da tenere in considerazione e forse ancora poco affrontato è l’effettiva neutralità dell’idrogeno rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione. Grandi produzioni di idrogeno potrebbero avere impatti sul clima che ancora non prevediamo appieno. Una cosiddetta economia all’idrogeno rilascerebbe in atmosfera quantità rilevanti di questa molecola molto reattiva, con possibili effetti negativi sul budget radiativo della Terra e sulla qualità dell’aria a livello locale.  È noto ad esempio che l’idrogeno prolunga il tempo di sopravvivenza del metano in atmosfera, aggravando l’effetto serra di quest’ultimo. 

La lunga vicenda del buco dell’ozono dovrebbe averci insegnato che il nostro pianeta è un sistema dinamico, fragile e complesso e qualsiasi alterazione anche minima della composizione dell’atmosfera può avere conseguenze negative rilevanti, che inizialmente non avevamo previsto. Su questo occorre vigilare attentamente.” 

 

Foto by ezps – freepik

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