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L’accordo dell’Europa con Trump rischia di frenare competitività e transizione

Il 21 agosto 2025, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno firmato un accordo che può rappresentare un momento di svolta per le relazioni transatlantiche.

L’Accordo nasce dalla necessità di stabilizzare i rapporti tra i due blocchi, in particolare dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, ed è stato presentato dalla Commissione Europea come una vittoria del pragmatismo e una garanzia di stabilità per le imprese europee. Nonostante l’entusiasmo di Bruxelles, l’Accordo pone interrogativi profondi sulla coerenza e sulla credibilità degli obiettivi del Green Deal europeo.

L’accordo economico tra UE e USA: numeri, dazi e investimenti

Il nuovo quadro di cooperazione transatlantica prevede l’eliminazione dei dazi europei sui beni industriali provenienti dagli Stati Uniti, inclusi macchinari, prodotti farmaceutici e fertilizzanti, oltre a quote commerciali per alcuni beni agricoli statunitensi. Da parte loro, gli Stati Uniti si impegnano a introdurre un’aliquota tariffaria unica massima del 15% sulla gran parte delle esportazioni europee, inclusi settori strategici come automobili e semiconduttori. Per quanto riguarda acciaio, alluminio e derivati sono previsti ulteriori negoziati; per ora tali merci restano soggette a tariffe fino al 50% del loro valore.

L’intesa conferma le conclusioni dell’accordo preliminare di luglio 2025, in Scozia, secondo il quale l’UE si impegna ad acquistare fino a 750 miliardi di dollari di prodotti energetici statunitensi entro il 2028, in particolare gas naturale liquefatto (GNL), petrolio e combustibili nucleari. A questi si aggiungono 600 miliardi di dollari di investimenti europei negli Stati Uniti e 40 miliardi per l’acquisto di chip per l’intelligenza artificiale americani.

Le reazioni all’accordo commerciale UE-USA

Palazzo Chigi ha accolto la dichiarazione congiunta UE-US sottolineando che non si tratta ancora di un punto di arrivo ideale. Come sottolineato da Sabine Weyand, direttrice generale per commercio e sicurezza economica e principale negoziatrice per l’Europa, questo accordo non è il frutto di una negoziazione tra pari ma, viste le circostanze, il migliore risultato possibile. La Commissione difendendo l’accordo, evidenzia che non solo l’UE ha ottenuto le condizioni migliori rispetto ad altri partner, sottolineando che sul piatto della bilancia c’erano anche le garanzie di sicurezza statunitensi per l’Ucraina. Il Presidente del Consiglio europeo António Costa ha sottolineato che commercio, diplomazia e sicurezza sono strettamente collegate e si influenzano a vicenda. Per questo, ha aggiunto Costa, l’esacerbarsi delle tensioni con un alleato chiave come gli Stati Uniti, mentre il confine orientale europeo è sotto minaccia, sarebbe stata una scelta imprudente. Secondo Costa, la moderazione è indice di responsabilità.

Tuttavia, le critiche verso questa strategia non sono mancate. Draghi l’ha descritta come una forma di rassegnazione, mentre governi come quello francese e tedesco ne hanno sottolineato i potenziali danni economici. Anche molti parlamentari europei appartenenti a diversi gruppi politici – dal Partito Popolare Europeo (PPE), ai Socialisti & Democratici (S&D) e i Verdi – hanno duramente criticato l’Accordo, definendolo squilibrato e una concessione a pressioni statunitensi.

Energia e clima nell’accordo UE-USA

Da un punto di vista energetico, l’Accordo presenta quattro grandi criticità.

Innanzitutto, l’acquisto di 750 miliardi di dollari (circa 700 miliardi di euro) di prodotti energetici (soprattutto GNL) non è praticabile. Nel 2024, l’UE ha importato dagli Stati Uniti prodotti energetici per circa 77 miliardi di euro, che rappresenta circa il 21% del valore dell’import energetico complessivo dell’Unione (pari a 375 miliardi di euro). Secondo l’Accordo tali volumi dovrebbero triplicarsi nei prossimi tre anni – cosa difficile da realizzare considerati vincoli strutturali come la capacità limitata di rigassificazione in diversi Stati Membri o la concorrenza asiatica. Inoltre, l’UE non dipende esclusivamente dagli Stati Uniti: ha già accordi di fornitura consolidati con altri produttori di GNL, come Qatar e Algeria, e punta a mantenere una diversificazione degli approvvigionamenti come principio di sicurezza energetica.

Secondo, tale impegno è incompatibile con gli obiettivi climatici europei. Il piano REPowerEU prevede di ridurre del 25% le importazioni di gas entro il 2030 e la domanda di gas in Europa è già strutturalmente in calo, trainata dall’efficienza energetica, dall’elettrificazione di settori industriali e residenziali e dall’accelerazione delle rinnovabili.

Inoltre, impegnarsi ad acquistare GNL americano potrebbe risultare problematico alla luce delle implicazioni del regolamento europeo sulle emissioni di metano associate all’estrazione di gas, petrolio e carbone. Quando rilasciato direttamente in atmosfera, il metano produce un effetto serra molto più significativo della CO2, motivo per il quale diverse iniziative internazionali, come il Global Methane Pledge, hanno l’obiettivo di ridurne le emissioni. Il regolamento europeo richiederà agli importatori di garantire che il petrolio e il gas importati abbiano un’intensità di metano inferiore ad una determinata soglia che sarà fissata dalla Commissione europea entro il 2030, in linea con gli obiettivi del Green Deal, oltre a prevedere relative sanzioni in caso di superamento. Nel caso della produzione del gas americano, l’intensità emissiva di metano è particolarmente alta in quanto derivata dal fracking, una tecnica di estrazione che provoca un rilascio di emissioni di metano superiore rispetto ad altri metodi di estrazione. Ciò rende particolarmente problematico conciliare queste forniture con le nuove regole europee.

Terzo, questo impegno rischia di intensificare la dipendenza geopolitica dagli Stati Uniti. Ad oggi gli Stati Uniti sono già il primo fornitore di GNL con circa il 55% degli approvvigionamenti nel 2025 e, sebbene 15 miliardi di metri cubi di gas russo siano già stati sostituiti con GNL americano, secondo la Commissione l’accordo punta a sostituire completamente le forniture russe con energia statunitense entro il 2028. Ciò significherebbe affidare una parte crescente del fabbisogno energetico a Washington, riducendo i margini strategici e aumentando l’esposizione a pressioni politiche e commerciali esterne.

Infine, l’accordo rischia di compromettere la transizione energetica in Europa visto l’elevato costo opportunità. Gli investimenti in combustibili fossili americani rappresenterebbero una rinuncia a investimenti equivalenti in un’autonomia energetica basata sulle fonti rinnovabili ed efficienza energetica. L’Institute for Energy Economics and Financial Analysis stima che l’investimento di 750 miliardi di dollari nelle rinnovabili permetterebbe all’UE di installare 321 GW di energia solare, 151 GW di eolico offshore e 74 GW di eolico onshore: un incremento del 90% della sua capacità rinnovabile complessiva.

Un buon affare per l’Italia?

A seguito di quest’accordo, l’8 settembre a Roma, il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha firmato una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti. L’intesa mira a rafforzare la sicurezza energetica italiana ed europea attraverso un maggiore ricorso al GNL proveniente dagli USA.

Con questa dichiarazione l’Italia ribadisce la volontà di aumentare l’import di GNL americano in un contesto geopolitico altamente instabile in cui la rotta transatlantica viene presentata come più sicura rispetto ad altre rotte di approvvigionamento e come parte di una cooperazione strategica più ampia che include il sostegno all’Ucraina.

La dichiarazione ha un carattere strettamente politico: non definisce accordi commerciali, né indica i volumi precisi che l’Italia potrebbe importare o relative tempistiche. Le risposte delle aziende oil&gas non si sono fatte attendere: Edison ha da poco concluso un accordo con Shell per acquistare, dal 2028 per 15 anni, circa 0,7 milioni di tonnellate all’anno di gas liquido statunitense, pari a un miliardo di metri cubi l’anno in forma gassosa. Già lo scorso luglio Eni aveva annunciato la firma di un accordo di fornitura di GNL a lungo temine con l’americana Venture Global, con la quale l’azienda si impegna ad acquistare 2 milioni di tonnellate l’anno (circa 2,7 miliardi di metri cubi di gas naturale) per 20 anni, con consegne in Italia a partire dalla fine del decennio. Questo accordo è stato celebrato in questi giorni tra i vertici di Eni e quelli dell’Amministrazione Trump, inclusi il Segretario degli Interni e il nuovo ambasciatore americano, durante la Conferenza internazionale del gas (Gastech) in corso a Milano.

In una nostra precedente analisi avevamo evidenziato che, considerando gli scenari di domanda futura di gas, parte della capacità di importazione ad oggi disponibile rimarrà inutilizzata. Non è quindi chiaro quale sia il vantaggio per l’Italia nel legarsi a contratti di fornitura vincolanti e di lungo periodo per volumi che vadano oltre alle reali necessità. Esistono infatti strumenti di mercato più flessibili, come le aste di allocazione di GNL, che permettono di selezionare quantità, prezzi e consegne in base all’effettivo incontro tra domanda e offerta. Vincolare la capacità di rigassificazione a contratti di lungo periodo, per esempio con clausole take or pay, comporta diversi rischi: da un lato, limita la flessibilità di sistema, incrementando il rischio delle forniture. Dall’altro, le forniture dipenderebbero in misura crescente da un partner – gli Stati Uniti – che sta utilizzando i combustibili fossili come strumento di pressione geopolitica.

La dichiarazione richiama inoltre l’importanza di sostenere la diversificazione energetica europea tramite il rafforzamento dello sviluppo delle infrastrutture di rigassificazione in Italia.

Incrementare ulteriormente la capacità di rigassificazione in Italia non ha alcun fondamento energetico-economico. La domanda di gas in Europa e in Italia si è ridotta del 18% negli ultimi 3 anni, passando da un totale annuo di circa 76 Mld mc nel 2021 a meno di 62 Mld mc nel 2024.  Il nostro studio “Lo stato del gas” mostra come l’infrastruttura esistente sia sufficiente a garantire la sicurezza delle forniture grazie ai flussi da Algeria, Azerbaigian e Libia, all’utilizzo della capacità di rigassificazione esistente e alla produzione nazionale. Nuovi investimenti determinerebbero un ulteriore costo per un’infrastruttura in transizione. Gli effetti della penetrazione delle fonti rinnovabili nei mercati elettrici, altamente più competitive, dell’elettrificazione dei consumi civili, risparmi ed efficienza nelle abitazioni e il calo della produzione industriale, fortemente dovuta al costo del gas, dipingono uno scenario di progressiva riduzione della domanda di gas nel mercato europeo, incrementando i costi infrastrutturali sui clienti finali. Incrementare le infrastrutture andrebbe ad esclusivo vantaggio delle imprese energetiche coinvolte a scapito delle bollette finali di cittadini e imprese non energetiche.

In ultima analisi, né la Commissione Europea né la Casa Bianca, né tantomeno il Governo italiano, possono decidere dove andrà il GNL americano, che segue logiche globali di domanda e offerta. Ma il segnale politico che Unione europea e Italia mandano a cittadini e imprese è fortemente contradditorio: da un lato, si vuole ridurre l’alto costo dell’energia che soffoca l’economica e che è trainato principalmente dal costo del gas. Dall’altro, si concludono accordi e dichiarazioni con Stati Uniti (e non solo) che puntano a legare l’Europa e l’Italia al gas per un periodo molto più lungo di quanto necessario. Se davvero Europa e Italia vogliono seriamente raggiungere autonomia strategica, competitività e sostenibilità sociale la strada da intraprendere oggi è quella di pianificare l’uscita ordinata dal gas.

Foto di Chris Pagan

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