L’invasione russa dell’Ucraina, lanciata il 24 febbraio 2022, ha causato notevoli ripercussioni sui mercati energetici mondiali aumentando l’importanza di politiche per un’autonomia energetica strategica. Volatilità dei prezzi, difficoltà di approvvigionamento e incertezza economica hanno contribuito a quella che l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha definito come “la prima vera crisi energetica globale, i cui impatti saranno avvertiti per gli anni a venire”. Soprattutto, la crisi ha rimesso in discussione il partenariato energetico tra Russia ed Europa, che per più di trent’anni è stato basato sulla fornitura stabile di gas a prezzi competitivi.
Tra maggio e ottobre 2022, la Russia ha ridotto dell’80% le forniture di gas all’Europa, portando Bruxelles a ricercare partner alternativi e, soprattutto, a dare nuova spinta alla transizione energetica, identificata nel discorso sullo Stato dell’Unione 2022 della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen come “funzionali all’indipendenza”. Infatti, tanto in Europa quanto nei paesi importatori in via di sviluppo, la crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina ha evidenziato gli aspetti negativi della dipendenza da fonti combustibili fossili, quali volatilità dei prezzi ed eccessiva dipendenza dai paesi produttori ed esportatori. In Europa, grazie prettamente a un inverno mite e a una riduzione della domanda data principalmente dall’aumento dei prezzi, le scorte di gas sono rimaste relativamente stabili durante i mesi più freddi dell’anno.
Sebbene ciò abbia contribuito ad attenuare l’impatto delle interruzioni delle forniture dalla Russia, le prospettive per l’inverno 2023 potrebbero essere meno rosee. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), per il 2023 l’UE si trova ad affrontare una potenziale carenza di quasi 30 miliardi di metri cubi di gas naturale. Un gap che, sempre secondo l’Agenzia, può essere significativamente ridotto attraverso maggiori sforzi per migliorare l’efficienza energetica, diffondere le energie rinnovabili, installare pompe di calore, promuovere il risparmio energetico e, solo per la parte mancante, ricercando forniture di gas alternative.
La volontà europea di ridurre la dipendenza dalla Russia attraverso l’accelerazione sul fronte della transizione energetica è stata evidenziata e ribadita in diversi documenti che hanno rappresentato la risposta congiunta degli Stati Membri alla crisi.
Nel marzo 2022, all’indomani dell’invasione russa, i leader europei riuniti a Versailles hanno affermato la volontà di ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas, petrolio e carbone dalla Russia attraverso la diversificazione delle forniture, l’accelerazione nello sviluppo delle fonti di energia rinnovabile, il miglioramento dell’efficienza energetica e la riduzione dei consumi, e la riduzione della dipendenza da tutte le fonti fossili, non solo quelle importate dalla Russia, anche in considerazione degli obiettivi climatici dell’Unione al 2050. La volontà espressa a Versailles ha trovato applicazione nel piano REPowerEU, proposto dalla Commissione europea nel maggio 2022, che propone di porre fine alla dipendenza del blocco dai combustibili fossili russi entro il 2027.
Tra gli altri obiettivi, il piano mira ad aumentare la quota delle rinnovabili nel consumo finale di energia al 45% entro il 2030, superando l’obiettivo del 40% precedentemente fissato in fase di negoziazione1. Il nuovo paradigma della transizione come necessaria alla sicurezza energetica dell’Unione ha influenzato anche i negoziati sulle diverse misure del pacchetto Fit for 55, avviate prima dell’invasione russa dell’Ucraina per trasformare in politiche concrete gli obiettivi del Green Deal europeo, e rivisti nel senso di una maggiore ambizione dopo il marzo 2022.
Ma soprattutto, l’accelerazione impressa alla transizione energetica se da un lato ha acceso i riflettori sul nesso tra la riduzione della dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili e una maggiore autonomia strategica, dall’altro ha portato l’Europa a interrogarsi circa la propria capacità di raggiungere gli ambiziosi target fissati nel percorso legislativo del Fit for 55 senza creare nuove eccessive dipendenze e senza incorrere in perdite di competitività rispetto ad altri blocchi economici.
Due questioni in particolare sono emerse come prioritarie: la dipendenza dalla Cina per la fornitura di materiali critici e componenti delle tecnologie strategiche per la transizione energetica e la sicurezza nazionale, e la competizione con gli Stati Uniti dopo che Washington ha varato un massiccio piano di incentivi – l’Inflation Reduction Act – per il reshoring sul territorio americano delle catene del valore per le tecnologie verdi. Quest’ultimo elemento, in particolare, ha dato ulteriore impulso al dibattito in sede europea sulla necessità che l’Europa si doti di una nuova politica industriale per lo sviluppo delle tecnologie per la transizione.
Gli Stati Uniti e l’Inflation Reduction Act
Con l’Inflation Reduction Act del 16 agosto 2022, gli Stati Uniti destinano $500 miliardi di spesa e incentivi fiscali in tre pacchetti di misure: una riforma fiscale, una riforma sanitaria e una energia e clima. Quest’ultimo pacchetto, con quasi $400 miliardi allocati, è il più significativo. Attraverso sussidi e sgravi fiscali, l’IRA mira a ridurre di due terzi il gap tra le emissioni Usa attuali e l’obiettivo al 2030. Come effetto indiretto, attraverso l’abbassamento dei costi di sviluppo delle nuove tecnologie, l’IRA potrebbe poi permettere di colmare il gap rimanente. Sebbene l’Atto sia – secondo gli esperti – meno efficace ai fini della riduzione delle emissioni rispetto alla combinazione di politiche di incentivi fiscali con la creazione di un mercato del carbonio, esso rappresenta comunque un significativo passo in avanti per la politica climatica Usa e per il contributo di questi ultimi alla riduzione delle emissioni globali.
La maggior parte dei $394 miliardi di finanziamenti per l’energia e il clima è sotto forma di crediti d’imposta volti a catalizzare gli investimenti privati nella produzione di tecnologie per l’energia pulita. Le imprese sono i maggiori beneficiari, con un valore stimato di $216 miliardi di crediti d’imposta. Ci sono poi incentivi per i consumatori, ai quali vengono accordati crediti d’imposta per un valore di $43 miliardi rendendo dunque più convenienti i veicoli elettrici, gli elettrodomestici ad alta efficienza energetica, l’installazione di pannelli solari, il riscaldamento geotermico e le batterie domestiche. Questi incentivi sono però soggetti ad alcune condizioni: molti incentivi fiscali IRA contengono anche requisiti di produzione e approvvigionamento locali. Ad esempio, per sbloccare l’intero credito al consumo per i veicoli elettrici, una percentuale significativa di minerali critici presenti nella batteria deve essere riciclata in Nord America o estratta o lavorata in un Paese che abbia un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. La batteria deve inoltre essere stata prodotta o assemblata in Nord America.
L’IRA contiene dunque elementi protezionistici: sussidi condizionati a requisiti di contenuto locale, vietati dalle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), e sussidi all’industria manifatturiera su larga scala che potrebbero essere distorsivi del mercato e del commercio. Sono questi elementi ad aver esacerbato i timori Ue che i produttori europei di tecnologie pulite spostino la loro produzione negli Stati Uniti, in cerca di un’allettante combinazione di sussidi e bassi costi energetici. La divergenza di vedute tra Washington e Bruxelles non è tanto rispetto al volume dei sussidi verdi, quanto alla loro tipologia.
I sussidi dell’IRA e dell’UE per l’acquisto di veicoli elettrici e per la produzione di tecnologie pulite sono infatti di dimensioni simili, mentre le sovvenzioni per le energie rinnovabili sarebbero ancora molto più alti nell’UE, supponendo che l’UE e i suoi membri continuino a sovvenzionare allo stesso tasso degli ultimi anni. Inoltre, i sussidi dell’IRA discriminano i produttori stranieri in modo diverso dai sussidi europei. Un altro aspetto rilevante che marca la differenza tra l’IRA americano e l’approccio delle politiche della UE, riguarda le modalità di erogazione dei sussidi, che nell’IRA sono cumulabili, facilmente bancabili e coprono un periodo di 10 anni – mentre il sostegno dell’UE è più frammentato e generalmente considerato più lento, soggetto a complesse procedure burocratiche e talvolta di più breve durata. Infine, nel settore delle tecnologie pulite, l’IRA si concentra soprattutto sulla diffusione di massa delle tecnologie di attuale generazione, mentre il sostegno a livello UE si estende in buona parte all’innovazione e sulle fasi iniziali di sviluppo delle nuove tecnologie.
Gli elementi protezionistici dell’IRA trovano spiegazione nel contesto nel quale l’Atto è stato approvato: quello di una competizione sistemica crescente con la Cina, e di una polarizzazione politica interna agli Usa che ha portato la norma a essere significativamente modificata in questo senso prima di essere approvata dal Congresso. Nondimeno, questi elementi destano motivo di preoccupazione circa la tenuta del sistema mondiale di libero commercio, e del ruolo degli Stati Uniti in esso. L’uso di sussidi nell’IRA, tanto quelli ammessi quanto quelli non conformi alle regole OMC, lo pone chiaramente in contrasto con le regole commerciali multilaterali che gli Stati Uniti hanno contribuito a creare. Questo non è un elemento nuovo: già Trump con l’adozione di tariffe sull’importazione di alluminio e acciaio dalla Cina aveva intrapreso questo percorso.
Tuttavia, il fatto che l’amministrazione Biden abbia scelto la linea della continuità con queste politiche, è indicativo di una tendenza profonda nella politica statunitense, di fronte alla quale gli europei non possono che mostrare preoccupazione. Inoltre, la combinazione finora inedita di sussidi non conformi alle norme OMC e regole sul contenuto di origine locale, rischia di scatenare una reazione di emulazione deleteria per il sistema di libero commercio globale. Già il presidente francese Emmanuel Macron ha invocato l’adozione di norme “Buy European” in questo senso. Tutto questo avviene mentre l’OMC, che dovrebbe essere l’Organizzazione incaricata di far rispettare le regole del libero commercio, si trova in un momento di profonda debolezza perché ancora paralizzata proprio dal veto Usa sulla nomina dei giudici dell’organo d’appello.
La risposta europea: il Green Deal Industrial Plan e la necessità di autonomia strategica
Il timore di una perdita di competitività del tessuto industriale europeo – già messo a dura prova dalla crisi energetica derivante dall’invasione russa dell’Ucraina – di fronte all’incisività dei sussidi statunitensi ha riportato in auge nell’Unione europea il dibattito sulla necessità di una politica industriale sovrana. Si tratta, per l’Ue, di un difficile cambio di paradigma. La tutela del mercato unico – il cuore del progetto europeo – è considerata incompatibile con le politiche industriali nazionali, in quanto queste creano condizioni di disparità tra le imprese situate nei diversi Stati membri. Il mantenimento della libera concorrenza e la vigilanza contro gli aiuti di stato sono stati a lungo – e sono tuttora – capisaldi dell’operato della Commissione.
Il livello inedito delle sfide che l’Europa si trova oggi ad affrontare, e soprattutto il varo da parte degli Usa dell’IRA, sta però portando un ripensamento circa la necessità di rafforzare la base industriale europea. In un discorso al Collegio d’Europa del dicembre 2022, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ha sottolineato l’impegno europeo a cercare una risposta adeguata e ben calibrata all’IRA, senza però scatenare una guerra commerciale con gli Stati Uniti. La ricetta delineata da Von der Leyen si compone di tre elementi: semplificazione e adattamento delle regole sugli aiuti di stato; creazione di un Sovereignty Fund, ovvero fondi europei comuni per una politica industriale europea comune (idea già lanciata nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2022); cooperazione con gli Usa nella creazione degli standard e nella creazione di un critical raw materials club. Dando seguito a quanto delineato a Bruges, la Commissione ha poi proposto in febbraio il Green Deal Industrial Plan, un piano per lo sviluppo industriale a livello europeo delle tecnologie e delle competenze chiave per la decarbonizzazione.
Il piano si articola in quattro pilastri: semplificazione del quadro regolatorio, sblocco dei finanziamenti nel breve e nel medio termine, sviluppo delle competenze per i lavoratori, accordi di libero commercio e altre forme di cooperazione con i partner per l’avanzamento della transizione. A completamento del primo pilastro, la Commissione ha poi presentato nel mese di marzo le proposte di regolamento Net Zero Industry Act (NZIA) e Critical Raw Materials Act (CRMA). L’NZIA definisce il quadro regolatorio per le tecnologie strategiche per la transizione2, per le quali viene introdotto un target di produzione del 40% su territorio UE, e accelera le procedure di autorizzazione all’installazione di impianti, incluse le autorizzazioni ambientali. Il CRMA mira invece a ridurre la dipendenza da supply chain estere di materiali critici e definisce obiettivi minimi in relazione alla domanda di materiali critici necessari all’industria dell’Unione al 2030 per l’estrazione (10%), la raffinazione (40%), il riciclo (15%) all’interno dell’Ue. Per differenziare l’approvvigionamento di materiali critici, l’Ue intende creare partenariati strategici con paesi terzi. L’obiettivo è quello dell’integrazione delle catene del valore minerali e industriali tra Ue e paesi partner e della cooperazione su progetti strategici.
L’UE ha già firmato partenariati di questo tipo con Canada, Ucraina, Namibia e Kazakistan; altri sono in corso di negoziazione, specialmente in Africa. Attraverso il piano Global Gateway, Bruxelles intende sostenere progetti di sviluppo infrastrutturale, di connettività e sui materiali critici in questi paesi, con un’enfasi sulla sostenibilità e sulla creazione di valore in loco.
Per quanto riguarda il secondo pilastro del Green Deal Industrial Plan, lo sblocco dei finanziamenti, la Commissione ha invece adottato lo scorso marzo il Temporary Crisis and Transition Framework per la revisione delle regole sugli aiuti di stato anche a supporto delle tecnologie per la transizione, mentre per il mese di giugno è attesa la presentazione di una proposta per un European Sovereignty Fund quale risposta strutturale al nuovo fabbisogno di investimenti nella transizione.
Quale autonomia strategica?
A poco più di un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’Ue ha ridimensionato la propria dipendenza dalle importazioni di gas dalla Russia. Una combinazione di tempo mite, aumento delle importazioni di LNG, rallentamento delle importazioni cinesi, calo della domanda anche indotto dai prezzi elevati hanno permesso all’Europa di concludere la stagione invernale con un riempimento degli stoccaggi superiore al 50% (lo scorso anno, pre-crisi, fu il 20%). Se da un lato ciò è da salutare come un successo, dall’altro è necessario ricordare che l’Europa e i suoi cittadini hanno pagato un prezzo elevato: il prezzo all’ingrosso del gas è salito a livelli record durante la stagione di riempimento degli stoccaggi – con un picco di oltre 335 euro per megawattora in agosto – con effetti disastrosi sulle bollette delle famiglie, sui costi energetici delle imprese e sulla competitività industriale europea.
Inoltre, la diversificazione delle forniture resa necessaria dall’esigenza di sostituire il gas di importazione russa, ha fortemente rafforzato il potere contrattuale dei fornitori alternativi. Un’Europa percepita come in posizione di debolezza e in emergenza è un’Europa che perde potere negoziale nelle proprie interlocuzioni con attori nel suo vicinato con i quali non sempre condivide valori e interessi.
Nel caso dell’Italia, aver sostituito la dipendenza dalla Russia con la dipendenza dall’Algeria, rischia di limitare l’autonomia del nostro paese in determinate scelte di politica estera qualora queste dovessero essere contrarie alle volontà del regime algerino (per esempio riguardo il contenzioso con il Marocco per la sovranità della regione del Sahara occidentale) e acconsentire al mantenimento di un sistema di potere fortemente autocratico, basato sulla rendita. A livello europeo il discorso è analogo: il rafforzamento della partnership con l’Azerbaigian rischia di minare il ruolo europeo di mediazione nel conflitto del Nagorno-Karabakh; quello della relazione con Israele priva l’Ue di leve negoziali nella mediazione tra Israele e Palestina.
Di conseguenza, appare chiaro il nesso tra rafforzamento dell’autonomia strategica europea e accelerazione della transizione energetica. La riduzione della quota di gas nel mix energetico europeo può riequilibrare il peso geopolitico dell’Unione nelle sue relazioni con i paesi fornitori, mettendo al contempo al riparo da future fluttuazioni dei prezzi. Inoltre, ridurre in maniera graduale gli acquisti di gas investendo al contempo nelle energie rinnovabili permetterebbe all’Ue di favorire una transizione giusta e ordinata nei paesi del proprio vicinato, mettendosi così al riparo da futura instabilità derivante dal venire meno della rendita da oil&gas.
Al contempo, però, l’accelerazione della transizione rischia di lasciare l’Ue esposta a una relazione eccessivamente sbilanciata con la Cina, detentrice di un quasi monopolio su molte tecnologie necessarie alla transizione energetica, oltre che della raffinazione di terre rare e altri materiali critici necessari per la loro produzione. In questo senso, il Green Deal Industrial Plan, il Critical Raw Materials Act così come altre iniziative già esistenti come la European Battery Alliance per la costruzione di un’industria europea delle batterie, rappresentano un buon punto di partenza.
Mentre per l’Ue sarà difficile assicurarsi una totale indipendenza dalla Cina, tali iniziative possono riequilibrare il suo ruolo e garantire la competitività delle imprese europee nei mercati del futuro. Attraverso la creazione di partnership, in particolare con paesi nel proprio vicinato e in Africa subsahariana, per la cooperazione nella costruzione di catene del valore per le tecnologie della transizione, sarà possibile per l’Ue ricreare una interdipendenza virtuosa, salvaguardando la propria ambizione a essere leader climatico e garante del sistema multilaterale basato sul libero commercio.
Sostenendo la creazione di competenze così come di posti di lavoro nelle industrie verdi, oltre che al suo interno, anche in paesi del Vicinato e in Africa, l’Ue potrà contribuire davvero alla creazione di valore aggiunto in loco, alla diversificazione delle economie e alla creazione di nuove opportunità per la numerosa popolazione giovane della regione del Mediterraneo allargato e del continente africano. Perché ciò avvenga, è necessario che l’Ue non ceda alle sirene del protezionismo, ma che mantenga un obiettivo di autonomia strategica aperta.
Anche sul fronte della relazione con la Cina, un’Europa più autonoma è un’Europa più forte, che può cercare e auspicabilmente trovare la cooperazione con Pechino sui principali dossier globali, a partire dalla lotta al cambiamento climatico e dalla ridefinizione del ruolo cinese nell’architettura globale degli aiuti allo sviluppo oltre che della finanza climatica.
L’invasione russa dell’Ucraina e, prima ancora, la pandemia di Covid-19, hanno portato l’Ue a confrontarsi con crisi inedite e molteplici. Sullo sfondo, una rivalità strategica sempre più accesa tra Stati Uniti e Cina, che rischia di frantumare ulteriormente ciò che rimane dell’ordine globale liberale incentrato sul multilateralismo. E, ancora, una crisi climatica che mette a repentaglio sicurezza umana e stabilità socio-economica tanto nell’Ue quanto nei paesi del Vicinato e a livello globale. Nella ricerca di una maggiore autonomia e nella salvaguardia della propria competitività futura, l’Ue deve privilegiare multilateralismo e investimento nelle nuove catene del valore: la cooperazione con i partner è cruciale per creare nuovi legami di interdipendenza virtuosa, costruire maggiore autonomia rispetto a paesi terzi – che siano “vecchie” dipendenze come l’oil&gas o “nuove” come le tecnologie per la transizione –, costruire resilienza per proteggere i propri cittadini dalla crisi climatica. Per questi motivi, la risposta alla crisi energetica non può che essere l’accelerazione della transizione; l’autonomia strategica non può che essere aperta.
Photo by Red Zeppelin