1. È possibile avere energia tutto l’anno se le rinnovabili sono intermittenti?
Sì. Grazie a diverse tecnologie già disponibili è possibile assicurare l’adeguatezza e la sicurezza di un sistema elettrico basato sulle rinnovabili in modo da garantire il soddisfacimento della domanda di energia 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno.
Le fonti rinnovabili si distinguono tra intermittenti e non. Alcune sono programmabili, come idroelettrico e biomassa. Altre, come solare ed eolico, funzionano in momenti e stagioni differenti, ma sempre più prevedibili, sovrapponendosi e integrandosi (grafico 1 con l’esempio della Germania). Inoltre, i nostri consumi non necessariamente coincidono con i periodi del giorno o dell’anno in cui queste fonti sono disponibili.
Grafico 1: Profili di produzione eolica (a) e fotovoltaica (b) attesi in Germania nel 2035
(Fonte: Agora Energiewende)
In primo luogo esiste la possibilità di stoccare l’energia a livello giornaliero e stagionale, cioè accumularla quando disponibile e ridistribuirla quando c’è la richiesta. È il caso degli accumuli: chimico (idrogeno), elettrochimico (batterie), elettrico (supercondensatori) e meccanico (accumuli ad aria compressa, bacini idroelettrici di pompaggio). I serbatoi idrici sono oggi gli accumuli più diffusi – coprono il 90% della capacità di stoccaggio mondiale – e il loro potenziale è ancora molto ampio sia nel modo in cui vengono usati sia nella capacità aggiuntiva che può essere immessa in rete. Gli accumuli elettrochimici (batterie) sono sempre più largamente utilizzati grazie a costi sempre più ridotti, alla facilità di localizzazione e alla flessibilità nel loro uso per i diversi servizi di dispacciamento e sicurezza.
Poi esistono altri modi per gestire la disponibilità delle rinnovabili. Il primo è l’efficienza energetica, che riduce la domanda, soprattutto durante i periodi invernali e di picco. Ad esempio, edifici più efficienti – in ottica di una progressiva elettrificazione del calore attraverso pompe di calore a sostituzione delle caldaie a gas – necessitano di meno riscaldamento e raffreddamento poiché hanno maggior inerzia termica, ossia la temperatura al loro interno cambia più lentamente, permettendo di mantenere un adeguato comfort interno con meno energia. Una seconda opzione è la flessibilità della domanda (demand response), con la quale i consumatori di energia riducono i loro consumi quando necessario, spesso automaticamente e impercettibilmente, aiutando a bilanciare domanda e offerta[1].
Infine, fondamentale è lo sviluppo della rete elettrica nazionale e delle interconnessioni con l’estero. Questo per ottimizzare a livello europeo la produzione tra tutte le fonti disponibili, con l’idea di base che se una fonte non produce in un dato luogo e momento ce ne sarà un’altra a farlo. Servono reti intelligenti, un aumento della capacità di import/export e una maggiore collaborazione tra gli operatori di rete.
Con la progressiva penetrazione delle fonti rinnovabili nei sistemi elettrici avremo maggiore disponibilità di energia per la produzione di idrogeno verde attraverso l’elettrolisi dell’acqua. Questo permette di garantire gli accumuli stagionali di energia, nel periodo invernale in particolare, per supplire alla mancanza di sole. Gli elettrolizzatori stessi saranno tecnologie in grado di bilanciare la rete, assorbendo l’energia prodotta in eccesso e scollegandosi quando richiesto.
Ricordiamoci che la variabilità delle fonti è sì una sfida, ma non è nuova per la rete. La gestione di una rete ha sempre fatto i conti con variazioni dell’offerta così come con fluttuazioni della domanda. Con maggiori quantità di rinnovabili dovrebbero cambiare le modalità con cui affrontare il problema: differenziazione e flessibilità, piuttosto che fonti di produzione di tipo “baseload” (ossia che forniscono una quantità minima di energia in maniera continua) che sono nominalmente stabili ma meno flessibili.
Non è meglio aspettare nuove tecnologie, magari a costi inferiori, invece di sviluppare ora le rinnovabili?
No, perché le rinnovabili sono oggi tra le fonti più competitive in termini di costi, indipendentemente dalla crisi dei prezzi del gas, e gli obiettivi climatici sono urgenti e possono essere raggiunti dal settore industriale, civile e trasporti, solo a completamento della decarbonizzazione del sistema elettrico.
L’indicatore generalmente adottato per valutare e confrontare i costi medi dell’elettricità prodotta dalle diverse tecnologie è il “LCOE” (Levelized Cost of Energy), che indica il costo di generazione di una fonte come somma dei costi variabili e dei costi fissi distribuiti sulla produzione di tutta la vita utile dell’impianto. Sono numerosi i lavori che mettono in chiaro l’LCOE delle diverse fonti. Uno studio di IEA e NEA (le agenzie rispettivamente per l’energia e per l’energia nucleare dell’OCSE), già nel 2020, stimava un livello di LCOE per solare ed eolico a terra inferiore a quello di nucleare e gas, almeno per l’area europea. Uno studio di Carbon Tracker e RMI del 2021 stima che in Italia un portafoglio di rinnovabili e tecnologie abilitanti – accumuli, efficienza e demand response – è in grado di offrire la stessa energia e gli stessi servizi di una centrale a gas, ma a un costo inferiore. Il lavoro è stato fatto con un prezzo del gas sul mercato europeo di circa 20 €/MWh. Durante quest’anno il prezzo del gas è stato in media ben superiore ai 100 €/MWh. Nel 2021 il costo di solare ed eolico onshore è ulteriormente sceso, rispettivamente del 13% e 15% su base annua secondo le stime di IRENA (l’Agenzia internazionale per l’energia rinnovabile), raggiungendo rispettivamente 33 e 48 USD/MWh. Il prezzo medio del mercato elettrico italiano nel 2019, prima della pandemia Covid, era di 52 €/MWh, nel primo semestre 2022 è stato di 250 €/MWh e queste settimane è di oltre 500 €/MWh. Per cui, nel 2022, per effetto della crisi energetica e del vertiginoso aumento del prezzo del gas, la competitività delle rinnovabili rispetto a gas e carbone è ulteriormente cresciuta, nonostante, secondo BloombergNEF, il valore medio del LCOE sia tornato ai livelli del 2019 a causa dell’aumento del costo delle materie prime e di molti componenti usati nei pannelli fotovoltaici e nelle pale eoliche.
Ovviamente questi valori variano in funzione della regione di riferimento, delle dimensioni dell’impianto, della disponibilità di vento e sole, del costo delle materie prime e della manodopera, della tecnologia impiegata, ecc. Tuttavia, questi risultati sono ormai largamente condivisi e tutte le più aggiornate analisi indicano eolico e fotovoltaico come le tecnologie più economiche per produrre elettricità.
Perciò, nel momento in cui la transizione verso un sistema energetico e, in generale, un’economia a basse emissioni di carbonio è in corso, serve investire nella tecnologia, ovviamente pulita, a minor costo possibile, rappresentata appunto dalle rinnovabili.
Per contro l’attesa di una nuova tecnologia in grado di produrre energia totalmente pulita a basso costo e talmente flessibile da richiedere sforzi minimi per essere integrata nel sistema elettrico – in pratica miracolosa – potrebbe generare extra costi futuri e rallentare l’innovazione tecnologica. Sappiamo già che il sistema elettrico deve essere decarbonizzato, ma per funzionare ha bisogno di continui investimenti; come evidenzia uno studio dell’Imperial College sul Regno Unito, una strategia attendista potrebbe tradursi in un sistema energetico che continua a investire nelle fossili già sovradimensionate e sempre più sottoutilizzate. Secondo lo studio i costi per il sistema potrebbero lievitare del 60% entro il 2050.
Il gas è necessario per assicurare la sicurezza del sistema elettrico quando il sole non c’è e il vento non soffia?
Ad oggi sì, ma progressivamente nel momento in cui le rinnovabili intermittenti vengono opportunamente integrate con fonti programmabili e tecnologie modulabili in grado di stoccare energia, il gas perderà il suo ruolo. L’attuale infrastruttura gas è sufficiente ad accompagnarci nella veloce transizione verso le rinnovabili. Dobbiamo far attenzione a evitare nuovi investimenti in centrali fossili che non verranno utilizzate, per indirizzare da subito le risorse sulle tecnologie abilitanti che costituiranno il futuro dei sistemi elettrici.
Esistono altre opzioni per la sicurezza della rete: l’idroelettrico (fonte programmabile, flessibile e rinnovabile), gli accumuli chimici, l’efficienza energetica, la gestione della domanda e l’interconnessione delle reti e l’idrogeno. Complementari alle rinnovabili, queste tecnologie offriranno progressivamente la flessibilità necessaria a garantire l’adeguatezza e la sicurezza di un sistema elettrico sempre più complesso. Una recente analisi, che ha coinvolto 15 università europee e americane, ha confrontato la letteratura scientifica dal 1970 ad oggi su scenari 100% rinnovabile, arrivando alla conclusione che nella maggior parte dei casi un sistema 100% rinnovabile, senza fossili e nucleare, è considerato fattibile e a basso costo.
Tecnologie per il bilanciamento della rete di breve e medio periodo, alternative al gas, esistono e sono già in parte all’interno dei piani di sviluppo di Terna, il gestore della rete nazionale (+8,5 GW di accumuli elettrochimici al 2040), ma vanno sviluppate con maggior rapidità, anche grazie ad alcune riforme trasversali del disegno del mercato elettrico, che permettano un’equa partecipazione delle risorse oggi non abilitate ai servizi di dispacciamento e bilanciamento.
Lo studio di Carbon Tracker e RMI del 2021, conferma che un portafoglio in Italia di rinnovabili – solare, eolico – con batterie, misure di efficienza e sistemi demand response – è in grado di offrire gli stessi servizi di rete (quantità mensile di energia, capacità di picco e flessibilità) di una centrale a gas, ma a un costo inferiore, rendendo nuovi impianti a gas non più giustificabili.
Il nucleare è necessario per complementare le rinnovabili nel sistema elettrico del futuro?
No, il nucleare in Italia arriva troppo tardi per la decarbonizzazione ed è una tecnologia che si adatta estremamente male a fare da complemento alle rinnovabili.
Infatti, in un mix con una importante quota rinnovabile, serve integrare un carico modulabile e flessibile, mentre la tecnologia nucleare è caratterizzata da un carico di base (baseload) che è generalmente stabile e rigido (la potenza erogata è costante e difficilmente modulabile per questioni tecniche ed economiche). Per la struttura dei costi del nucleare, che sono perlopiù fissi, far funzionare una centrale in modo discontinuo non la rende economicamente competitiva.
Il nucleare arriverebbe troppo tardi per contribuire significativamente al raggiungimento degli obiettivi al 2030, quando le rinnovabili saranno già il 70-80% del sistema elettrico, e anche il nucleare cosiddetto pulito non è tra le tecnologie disponibili per assicurare la neutralità climatica al 2050. Inoltre, investire nel nucleare distoglierebbe le risorse necessarie per le rinnovabili, i cui benefici sono immediati. Per maggiori dettagli si veda https://eccoclimate.org/it/qa-il-nucleare-serve-allitalia/
È vero che l’Italia è indietro nello sviluppo delle rinnovabili rispetto agli obiettivi?
Sì. Gli incrementi di fonti rinnovabili effettivamente realizzati dall’Italia negli ultimi anni (1,09 GW nel 2020 e 1,5 GW nel 2021) sono molto al di sotto degli obiettivi: al ritmo attuale gli obiettivi del 2030 sarebbero raggiunti solo nel 2071.
Il Piano per la Transizione Ecologica (PTE), indica le percentuali di sviluppo delle rinnovabili in mancanza dell’aggiornamento del PNIEC (Piano Nazionale per l’Energia e il Clima) agli obiettivi Europei. L’Italia dovrà portare il contributo delle rinnovabili nel settore elettrico al 72% entro il 2030 rispetto all’attuale 35% circa. Per raggiungere il nuovo obiettivo europeo di riduzione delle emissioni di gas serra del 55% netto al 2030 (rispetto al 1990) come previsto dal pacchetto Fit for 55, è necessaria quindi l’installazione di nuova capacità rinnovabile per circa 70-75 GW. Secondo l’associazione di settore Elettricità Futura (la principale associazione delle imprese che operano nel settore elettrico italiano), si potrebbero installare fino a 85 GW di rinnovabili entro il 2030, con una copertura dell’84% nel mix elettrico.
Secondo i dati statistici GSE, in Italia la potenza efficiente lorda installata era di 55,5 GW nel 2019 e 58 GW nel 2021. Lo sviluppo di 75 GW entro il 2030 significa quindi più che raddoppiare la potenza installata di rinnovabili nei prossimi nove anni, con un ritmo di installazione di 8,3 GW all’anno.
È vero che le rinnovabili hanno alti benefici occupazionali?
Eccome.
Come previsto dal D.Lgs. 28/2011, il GSE monitora annualmente gli impatti economici degli investimenti in rinnovabili e, secondo il rapporto 2020, queste tecnologie hanno generato rispettivamente nel 2019 e 2020 (stima ancora previsionale) ricadute occupazionali, temporanee e permanenti, dirette e indirette, per circa 41.596 ULA (Unità di Lavoro) e 51.405 ULA. Da notare che questa metrica indica la quantità di lavoro prestato nell’anno da un occupato a tempo pieno, e non corrisponde direttamente a un “posto di lavoro”. Sempre il GSE ha stimato anche gli impatti macroeconomici dello scenario PNIEC rispetto allo scenario BASE (business-as-usual), evidenziando, ad esempio, come gli investimenti nel fotovoltaico sarebbero in grado di generare nel periodo 2017-2030 un incremento di 13.000 ULA, a fronte di una riduzione di 1.000 ULA nel settore fossile. Il PNIEC, non aggiornato, aveva come obbiettivo di penetrazione delle rinnovabili il 55% al 2030, rispetto al nuovo obiettivo del 72%. Come mostra la figura sotto (sempre fonte GSE), l’occupazione generata dal solo fotovoltaico sarebbe in grado di compensare la perdita di posti di lavoro nel settore fossile; risultati che sono in linea con le stime del PNIEC stesso.
Le rinnovabili sono tecnologie ad alta intensità di occupazione (labour intensive), i cui impatti ricadono sul territorio in modo più diffuso e locale rispetto alle fossili. Queste ultime, al contrario, sono ad alta intensità di capitale (capital intensive), ossia richiedono elevati capitali per acquistare la materia prima, le attrezzature e i macchinari, alimentando le economie dei paesi che il combustibile lo producono e lo vendono. Data la differenza tra i due modelli di business, il confronto non è facile. Tuttavia, diversi studi indicano che la chiusura di centrali fossili e la realizzazione di impianti rinnovabili generi un bilancio occupazionale positivo. Secondo il World Resource Institute (Istituto mondiale delle risorse), investendo un milione di dollari in energia solare si potrebbero creare un numero di posti di lavoro che è 1,5 volte superiore a quelli creati investendo la stessa somma di denaro nell’industria fossile. Valori simili sono stimati anche per eolico, idroelettrico e geotermico.
Le ricadute sarebbero, inoltre, locali. Infatti, come evidenzia l’analisi del Politecnico di Milano riportata dal Ministero dello sviluppo economico, nel caso del solare, la realizzazione di celle, moduli e inverter avviene per oltre il 90% in imprese, straniere o nazionali, localizzate all’interno del territorio nazionale; per l’eolico la stessa percentuale, legata alla produzione di componenti e aerogeneratori, scende appena del 10% circa.
È vero che si prevede un alto impatto sul consumo di suolo di un sistema elettrico basato sulle rinnovabili?
No. L’impatto atteso non è significativo in termini di territorio e se ben gestito permetterà lo sviluppo prevalentemente in aree industriali.
Secondo le stime di Elettricità Futura, se si considera che un impianto solare, la fonte che in assoluto richiede più spazio, occupa un ettaro (ha) per ogni MW installato, la superficie necessaria a installare 85 GW di rinnovabili corrisponde a circa 85.000 ha (850 km2), ossia meno dello 0,3% della superficie nazionale (302.073 km2) o il 9% delle aree industriali dismesse (9.000 km2). In altri termini, corrisponderebbe ad appena il 10% della superficie oggi già impermeabilizzata e non edificata, ossia coperta da strade, parcheggi, etc. (7.913 km2).
Volendo invece considerare l’installazione sui tetti, ISPRA stima una superficie disponibile su edifici e fabbricati, al netto di una serie di fattori che limitano l’area effettivamente utilizzabile (comignoli, ombreggiature da elementi costruttivi o edifici vicini, vincoli di natura storico-paesaggistica, etc.), fino a 986 km2. Un quantitativo sufficiente a coprire l’aumento di energia rinnovabile complessiva previsto dai nuovi obiettivi nazionali al 2030.
Pertanto, la richiesta di spazio è assolutamente sostenibile e non rappresenta un problema tale da limitare l’installazione di nuovi impianti rinnovabili.
È vero che per costruire gli impianti rinnovabili si emette molta CO2?
No.
Secondo uno studio della IEA un pannello fotovoltaico è in grado di ‘compensare’ le emissioni dirette generate per la sua produzione dopo appena 3-5 mesi di attività, a fronte di una vita utile di 25-30 anni. Tale periodo sale a 1-2 anni se si considerano le emissioni nel ciclo di vita dell’impianto (estrazione delle materie prime per la produzione dei pannelli, produzione e installazione, utilizzo, smantellamento e riciclo a fine vita). Secondo NREL (il centro di ricerca americano sulle energie rinnovabili), che applica la Life-Cycle Assessment Analysis (LCA – serve a valutare gli impatti ambientali di un prodotto o un servizio lungo il suo intero ciclo di vita) a diverse fonti di energia, gli impianti rinnovabili hanno un’impronta di carbonio lungo l’intero ciclo di vita che è in media 24 volte inferiore a quella degli impianti fossili. Data la quantità e la complessità dei fattori da considerare nelle analisi, le valutazioni LCA possono portare a risultati non sempre confrontabili in termini assoluti; tuttavia emerge chiaramente che le emissioni di ciclo di vita di impianti per le rinnovabili sono sempre notevolmente inferiori e meno variabili rispetto a quelle associate a impianti da fonti fossili, anche banalmente perché non direttamente emissive durante la vita utile degli impianti. Inoltre, con un mix elettrico sempre più verde e nuovi sviluppi nell’efficienza tecnologica e nel riciclo, sarà possibile ridurre ulteriormente l’impatto emissivo di ciclo di vita associato a queste tecnologie – ad esempio già oggi le emissioni associate alla produzione dei pannelli fotovoltaici sono dimezzate rispetto ai livelli del 2011.
Affidarsi alle rinnovabili significa creare una nuova dipendenza, per esempio nei confronti della Cina, per avere accesso ai materiali critici con cui sono realizzate? le cosiddette terre rare?
Non necessariamente. L’Occidente sta avviando importanti iniziative per creare una catena di approvvigionamenti alternativa a quella cinese. Inoltre, tutta l’economia verde, di cui le rinnovabili sono un pilastro, si basa sul recupero e il riutilizzo del materiale.
Con metalli delle terre rare (Rare Earth Elements – REE) si intende un gruppo di 17 elementi dispersi in aggregati minerali ampiamente disponibili su tutta la crosta terrestre. Tuttavia, la presenza in questi minerali è molto bassa (da qui rare), il che rende il processo di identificazione, estrazione e lavorazione molto complesso. Nell’ambito della transizione verde sono utilizzate nelle turbine eoliche, nei motori delle auto elettriche, nelle celle a combustibile.[2]
Il monopolio cinese riguarda più che altro la loro trasformazione e non la presenza in sé di questi minerali sul territorio. Secondo i dati IEA e IRENA, infatti, la Cina copre il 60% delle estrazioni mondiali e il 90% della produzione globale, eppure possiede solo il 38% delle riserve naturali note. Questa posizione dominante può creare importanti colli di bottiglia sull’approvvigionamento delle materie prime nel momento in cui la domanda di tecnologie pulite cresce rapidamente, come ci insegna l’esperienza dei mercati petroliferi. Come suggeriscono entrambi gli studi, è sufficiente e necessario organizzarsi per creare maggiore concorrenza lungo la catena di approvvigionamento mondiale per diversificare le forniture e ridurre così i rischi.
E l’Europa si sta attrezzando per andare in questa direzione. Nel 2020 ha presentato un piano d’azione per i Materiali Critici che prevede partenariati strategici con i paesi più ricchi di risorse, la creazione di un’Alleanza europea (ERMA – European Raw Materials Alliance), la mappatura delle potenzialità minerarie europee e investimenti industriali in attività di ricerca e sviluppo, specialmente in ottica di economia circolare. Anche gli Stati Uniti sono in prima linea in questo sforzo. Collaborazioni tra aziende statunitensi, australiane e giapponesi stanno cercando di creare una catena di approvvigionamento delle terre rare che permetta loro di superare gli ostacoli economici (costi ambientali) e tecnici (mancanza di competenze tecniche specifiche) e diminuire la dipendenza dalla Cina. All’interno dell’EU-US Trade and Technology Council esiste poi una strategia congiunta Usa-Ue per progetti di investimento in questo ambito. Recentemente è stato anche presentato il Reclaiming America Rare Earths Act che, attraverso incentivi fiscali, promuove l’estrazione e il riciclo di terre rare e metalli all’interno del territorio americano.
Infine, il mercato delle tecnologie verdi ha ancora ampie possibilità nel miglioramento dell’efficienza tecnologica e nel riciclo. Ad esempio, l’industria dell’automobile, il settore che più di altri necessita di questi minerali, sta sviluppando progetti di motori alternativi per evitare l’utilizzo dei magneti permanenti e di conseguenza delle terre rare. Le prestazioni sono ancora scarse, ma la ricerca continua. Anche il recupero dei materiali dai prodotti a fine vita avrà un ruolo fondamentale per ridurre la domanda futura di questi minerali. Secondo Federchimica, in Italia, si consumano direttamente 800 tonnellate di terre rare l’anno; cifra che sale a 8.800 tonnellate se si aggiungono quelli contenuti (embedded) nei prodotti finiti, dalle automobili ai computer. Una vera e propria miniera. Sempre secondo Federchimica, se venissero raccolti solamente i cellulari venduti nel 2011, il valore di mercato relativo al recupero delle terre rare sarebbe di oltre 150 milioni di euro – oggi ne vengono raccolti solo 500.000 pezzi per un valore di 2 milioni di euro.
Le rinnovabili elettriche sono importanti per la decarbonizzazione degli altri settori?
Sì, sono la precondizione per la decarbonizzazione dell’economia.
Nel settore trasporti, dal momento che la decarbonizzazione passa per l’elettrificazione del parco veicolare, produrre elettricità a emissioni zero permette di azzerare completamente le emissioni di CO2 associate all’utilizzo del veicolo elettrico. Ad esempio, oggi in Italia un’auto elettrica di piccole/medie dimensioni, come una Fiat 500, emette circa 43 gCO2 ogni km percorso.[3] Questo perché le emissioni legate all’uso dell’auto sono associate alla produzione di energia elettrica e all’insieme di fonti energetiche utilizzate per generare i kWh necessari a ricaricare il veicolo. Con un mix elettrico 100% rinnovabile, queste emissioni sarebbero nulle.
Nel settore civile le azioni fondamentali per spingere verso la neutralità climatica sono la riduzione della domanda di energia tramite misure per l’efficienza energetica e lo spostamento dei consumi verso il settore elettrico. In particolare il riscaldamento, dominato oggi dal gas naturale, è il comparto maggiormente interessato da questa trasformazione. Pompe di calore elettriche dovranno sostituire i sistemi di riscaldamento tradizionali alimentati da combustibili fossili; secondo la Strategia di Lungo Termine italiana il 70% delle abitazioni avrà una pompa di calore come impianto di climatizzazione principale al 2050. Perciò, ancora una volta, nel momento in cui efficientamento del parco edilizio ed elettrificazione dei consumi rappresentano la combinazione perfetta per ridurre le emissioni climalteranti del settore, annullare le emissioni legate alla produzione di energia elettrica è fondamentale.
Nell’industria, le soluzioni disponibili per decarbonizzare il settore consistono nell’elettrificazione dei consumi nella produzione di calore o nell’utilizzo di combustibili alternativi, specialmente nei casi dove l’elettrificazione non è possibile. Nel caso di processi industriali che richiedono calore a media e bassa temperatura è possibile sostituire gli attuali consumi termici alimentati con combustibili fossili con pompe di calore elettriche industriali, caldaie elettriche, forni a microonde, ecc. Con queste tecnologie non avviene alcuna reazione di combustione e dunque non si producono emissioni dirette di CO2. Tuttavia, mediante l’elettrificazione, non è possibile produrre calore a elevate temperature. In questo caso si può ricorrere all’idrogeno verde, cioè a idrogeno prodotto tramite elettrolisi dell’acqua. Utilizzando l’idrogeno, avviene una reazione di combustione, ma, non essendo presente un combustibile contenente carbonio, non si forma CO2. L’idrogeno verde è quello prodotto dalle fonti rinnovabili, ovvero dall’energia elettrica di reti sulle quali sempre maggiore sarà la penetrazione di fonti rinnovabili.
La decarbonizzazione dell’industria passa dunque attraverso un trasferimento di consumi dal settore fossile al settore elettrico, per la produzione di calore industriale a media e bassa temperatura e per la produzione di idrogeno verde. Come per il settore dei trasporti e il settore civile, per raggiungere la completa decarbonizzazione è però necessario che vengano annullate anche le emissioni indirette, cioè quelle emissioni di gas serra correlate alla produzione dell’energia elettrica. Con le rinnovabili è possibile decarbonizzare il sistema elettrico, permettendo quindi all’industria, e non solo, di abbattere sia le emissioni dirette che quelle indirette.
La sostituzione dei combustibili fossili con l’energia elettrica e l’idrogeno verde nei processi industriali, se non accompagnata da una sufficiente penetrazione delle rinnovabili, rischia di sottrarre quote di energia rinnovabile ad altri settori, che rallenterebbero il loro processo di decarbonizzazione. Per fare in modo che questo non avvenga è importante che si aumenti fin da subito il tasso di nuove installazioni rinnovabili, in modo che la decarbonizzazione proceda in ogni settore dell’economia.
[1] Ad esempio, nel settore residenziale il ventaglio di tecnologie in grado di fornire servizi di flessibilità alla rete spazia dagli elettrodomestici smart, capaci di gestire i propri cicli di lavoro in funzione della maggior o minore disponibilità di energia, fino ai boiler o ai veicoli elettrici, capaci di immagazzinare calore o energia elettrica. Sulla base di tariffe dinamiche, che riflettono il costo reale dell’elettricità nel mercato all’ingrosso e di conseguenza la curva di domanda di energia, i consumatori possono spostare i propri carichi durante i periodi fuori picco.
[2] Per maggiori dettagli sui settori e sulle tecnologie che richiedono l’utilizzo dei materiali critici si rimanda alla seguente pubblicazione della Commissione europea > https://ec.europa.eu/docsroom/documents/42881
[3] Stima effettuata considerando l’attuale fattore di emissione per il consumo di energia elettrica in Italia, pari a 258 gCO2/kWh, una quota di dispersioni dovute alle fasi di trasporto e ricarica dell’elettricità del 20% e un consumo (a ciclo combinato) del veicolo di 14 kWh/100 km.