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Conferenza FFD4 sul finanziamento allo sviluppo: perché è importante per gli obiettivi clima?

Quest’anno, la Conferenza sul Finanziamento allo Sviluppo (FfD4) si terrà dal 29 giugno al 3 luglio 2025 a Siviglia, in Spagna. FdD4 rappresenta una tappa cruciale nel percorso di riforma dell’architettura finanziaria globale. La Conferenza affronta il tema delle disuguaglianze sistemiche, il cambiamento climatico e la crisi del debito che affliggono molti paesi del Sud globale. Sarà un’occasione per valutare l’impegno e la volontà politica da parte di tutti gli attori globali per promuovere un ordine economico internazionale più equo, inclusivo e trasparente.

Promossa dalle Nazioni Unite in collaborazione con partner multilaterali e regionali, la Conferenza di Siviglia rappresenta un’occasione per rivedere criticamente i meccanismi del finanziamento allo sviluppo a quasi un decennio dall’adozione dell’Agenda 2030 e dell’Accordo di Parigi, con particolare attenzione al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG). L’obiettivo dell’incontro è duplice: da un lato, valutare i progressi compiuti nell’attuazione dei principali quadri globali esistenti – tra cui l’Action Agenda di Addis Abeba del 2015 – e, dall’altro, individuare nuove risposte a un contesto internazionale profondamente trasformato, segnato da crisi climatiche, debiti sovrani in aumento e crescente instabilità geopolitica.

Il disallineamento tra ambizione e realtà è evidente. Secondo le stime delle Nazioni Unite, il divario finanziario necessario per raggiungere gli SDG entro il 2030 ammonta a 4000 miliardi di dollari annui. A fronte di questa cifra, il rapporto 2024 dell’ONU sugli SDG evidenzia che soltanto il 16% degli obiettivi è attualmente in linea con le tempistiche previste, mentre circa il 50% risulta in ritardo e il 30% mostra segnali di regressione. Questi dati sottolineano l’urgenza di riforme strutturali e di un nuovo slancio politico e finanziario, specialmente da parte delle economie avanzate, per garantire un reale avanzamento verso un’economia globale più sostenibile ed equa.

Vent’anni di politiche incomplete per la finanza dello sviluppo

Sin dal Consenso di Monterrey del 2002, primo quadro multilaterale organico sul finanziamento allo sviluppo, la comunità internazionale ha riconosciuto sei pilastri fondamentali per promuovere crescita inclusiva e riduzione della povertà: mobilitazione delle risorse interne, attrazione degli investimenti esteri diretti, promozione del commercio internazionale, cooperazione finanziaria e tecnica, sostenibilità del debito e coerenza sistemica. Questi principi sono stati successivamente riaffermati dalla Dichiarazione di Doha del 2008, adottata in un contesto segnato dalla crisi finanziaria globale, che ha enfatizzato la necessità di tutelare i flussi di Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS – Official Development Assistance ODA) e rafforzare il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali.

Tuttavia, la risposta internazionale non è stata all’altezza delle sfide. La crisi finanziaria ha comportato un rallentamento dell’APS nei confronti dei paesi più vulnerabili, mentre le riforme promesse, in particolare quelle legate alla governance del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale, sono rimaste incomplete. A dieci anni di distanza dalla terza Conferenza sul Finanziamento allo Sviluppo (FfD3), l’Agenda d’Azione di Addis Abeba (2015) ha tentato di ampliare l’ambito del finanziamento allo sviluppo, integrando nuove priorità quali la finanza climatica, la cooperazione Sud-Sud, l’innovazione tecnologica e la lotta ai flussi finanziari illeciti. Strumenti nuovi come le collaborazioni pubblico-privato (blended finance) hanno fatto la loro comparsa, ma il divario di accesso al credito tra paesi ad alto e basso reddito è rimasto profondo e strutturale.

La crisi della cooperazione allo sviluppo in un mondo in policrisi

La pandemia da COVID-19 ha ulteriormente compromesso i progressi verso gli SDG, aggravando le disuguaglianze globali e alimentando una nuova crisi del debito. Secondo l’UNCTAD, nel 2023 il rapporto tra servizio del debito estero ed esportazioni nei paesi meno sviluppati ha toccato il 25,4%, rispetto al 15,9% dell’anno precedente, un livello ben al di sopra della soglia di sostenibilità comunemente accettata. In un contesto di alti tassi di interesse e accesso limitato ai mercati finanziari, calo delle esportazioni e delle entrate fiscali, oltre 3,3 miliardi di persone vivono in Paesi che oggi spendono più per ripagare gli interessi del debito che per fornire istruzione o sanità.

Ciò deve essere contestualizzato in un quadro geopolitico globale instabile, segnato da vecchi e nuovi conflitti prolungati e da tensioni geopolitiche e geoeconomiche che sempre più spesso rischiano di sfociare in guerre commerciali, con conseguenti impatti sulle catene del valore globali – inclusi i bene di prima necessità –, mettendo progressivamente in luce le vulnerabilità legate alle interdipendenze. In parallelo, la crisi climatica sta colpendo in modo sproporzionato le comunità del Sud globale (e in particolare il continente africano), tanto per ragioni fisiche e ambientali, quanto per la minore disponibilità di strumenti e risorse per fare fronti ad eventi catastrofici e conseguenze del cambiamento climatico. Ne consegue, dunque, che le disuguaglianze, sia tra paesi sia all’interno degli stessi, si stanno ampliando.

In questo quadro, in molte economie emergenti, la mancata transizione ecologica (intesa anche come mancata considerazione degli impatti del cambiamento climatico nella pianificazione dello sviluppo), rischia di diventare un ulteriore moltiplicatore di fragilità. Può portare infatti ad un peggioramento delle condizione socio-economiche, alimentando tensioni sociali e instabilità politica ed esacerbando le cause alla base dei flussi migratori, a livello diretto quanto indiretto. In tale contesto, la crisi climatica non può più essere trattata come una questione settoriale: essa incide in maniera trasversale su sicurezza alimentare, governance, salute, sviluppo economico, coesione sociale, ma anche stabilità politica e sicurezza. Ne consegue che integrare il nesso clima-pace-sicurezza e tenere conto dell’impatto del cambiamento climatico in tutte le politiche di cooperazione allo sviluppo è oggi una condizione necessaria. Questo approccio è particolarmente rilevante per pianificare una “ricostruzione verde” nelle zone di conflitto, ma risulta altrettanto cruciale in contesti fragili o a rischio, anche al di fuori di scenari bellici.

Lo stallo della governance multilaterale

In questo quadro, le risposte multilaterali esistenti si sono rivelate inadeguate. Il G20 Common Framework per la ristrutturazione del debito ha prodotto risultati modesti e tardivi. La Conferenza dell’Unione Africana sul Debito (Lomé, maggio 2025) ha rilanciato una piattaforma di proposte concrete: revisione sostanziale del G20 Common Framework, maggiore accesso a finanza a prestiti agevolati, utilizzo di strumenti innovativi, e istituzione di un meccanismo legale internazionale per la ristrutturazione ordinata del debito. È stato inoltre ribadito il bisogno di maggiore trasparenza, giustizia fiscale e condono del debito per i paesi più vulnerabili, al fine di liberare risorse per l’adattamento climatico e gli investimenti produttivi.

A peggiorare il tutto, si registra inoltre un calo degli APS, anche da parte di donatori storicamente centrali come gli Stati Uniti, che fino a poco tempo fa contribuivano per circa il 30% degli aiuti globali e oltre un terzo dell’assistenza umanitaria. All’inizio del suo secondo mandato, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha infatti smantellato l’Agenzia nazionale per lo Sviluppo Internazionale (USAID) e terminato oltre 5.000 programmi di aiuto allo sviluppo, per un valore totale di oltre 75 miliardi di dollari. Secondo un’analisi condotta da Refugees International, la quasi totalità delle sovvenzioni di USAID focalizzati sulla dimensione clima sono stati cancellati. Nel 2023, i fondi impegnati (obligations) per aiuti esteri ammontavano a 79 miliardi di dollari, di cui più di 42 miliardi gestiti proprio da USAID. Trump ha inoltre ridimensionato il ruolo degli Stati Uniti nel quadro ONU, annunciando tra le altre cose l’uscita dall’Accordo di Parigi sul Clima (lo aveva già fatto nel 2017) e il ritiro dei Washington dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Anche il sistema delle Nazioni Unite, a 80 anni dalla sua fondazione, è in seria difficoltà. Di fronte a una grave crisi di liquidità, le Nazioni Unite stanno discutendo tagli al personale, accorpamenti tra agenzie e una razionalizzazione strutturale. Ma più che un “downsizing”, servirebbe un rilancio della governance multilaterale, capace di rafforzare sinergie tra le agende di sviluppo, finanza e clima, riaffermando il ruolo delle Nazioni Unite come piattaforma inclusiva, legittima e rappresentativa, in grado di garantire beni pubblici globali in un mondo multipolare e frammentato.

Il difficile equilibrio pubblico-privato

In questo quadro, le politiche di cooperazione di attori globali – come l’Unione Europea e suoi Stati membri, tra cui l’Italia – fanno sempre più affidamento al settore privato per mobilitare fondi e colmare il divario finanziario. Un’evoluzione, questa, particolarmente delicata nella necessità di garantire standard e obiettivi della cooperazione allo sviluppo, accanto all’entrata in campo di risorse e interessi specifici. Infatti, l’ingresso del settore privato introduce logiche di profitto, rendimenti e bancabilità, che devono rispettare e andare a supporto degli obiettivi della cooperazione.

Secondo numerosi studi e valutazioni indipendenti, per esempio, i progetti di blended finance si sono finora concentrati in pochi paesi a medio reddito, lasciando esclusi i più vulnerabili. Gli incentivi privati non si sono allineati con le priorità pubbliche e non è stato dimostrato un impatto addizionale sufficiente.

A dieci anni dalla narrazione del passaggio “dai miliardi ai trilioni” nel coinvolgimento del settore privato nella finanza per lo sviluppo, la stessa Banca Mondiale ha riconosciuto che i risultati sono stati al di sotto delle aspettative, soprattutto nei contesti ad alto rischio e in assenza di solidi quadri normativi.

Verso la Conferenza sul Finanziamento allo Sviluppo di Siviglia

Il Compromiso de Sevilla, adottato il 17 giugno al termine della seconda sessione del quarto Comitato preparatorio a New York, rappresenta il risultato di un processo negoziale lungo e complesso, segnato da profonde fratture geopolitiche. L’adozione è avvenuta per consenso, ma con l’eccezione significativa degli Stati Uniti, che si sono ritirati formalmente dal processo proprio durante la sessione finale, annunciando che non parteciperanno alla conferenza di Siviglia. Questo gesto ha avuto un forte impatto politico e simbolico, sottolineando la distanza crescente tra la principale economia mondiale e il sistema multilaterale. Lo stesso giorno il Parlamento Europeo ha respinto in plenaria il rapporto “Financing for development – ahead of the Fourth International Conference on Financing for Development in Seville”, approvato dalla Commissione DEVE il 20 maggio, segnalando una mancanza di coesione anche all’interno dell’Unione Europea.

Pur riaffermando gli impegni assunti a Monterrey, Doha e Addis Abeba, il testo si confronta oggi con un contesto geopolitico e macroeconomico profondamente mutato, segnato dalla convergenza di crisi sistemiche — climatica, sociale e finanziaria. I negoziati hanno messo in luce le profonde asimmetrie che ancora oggi caratterizzano il sistema economico internazionale. Se da un lato esistono spazi di consenso su obiettivi generali, dall’altro persistono divisioni sostanziali su come raggiungerli. Il capitolo sul debito è stato uno dei nodi più controversi. La proposta iniziale di avviare un processo intergovernativo per colmare le lacune nell’architettura del debito è stata fortemente ridimensionata. Il paragrafo 50f si limita ora a raccomandare un processo per formulare raccomandazioni, senza impegni vincolanti. Anche se il testo include un invito al Segretario Generale a consolidare principi volontari sul prestito e il debito sovrano, manca ancora un meccanismo efficace per la ristrutturazione del debito.

Sul fronte climatico, il documento ha deluso molto le aspettative dei paesi più vulnerabili. Nonostante il mantenimento del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, è stata omessa ogni riaffermazione esplicita degli obblighi di finanziamento climatico previsti dall’UNFCCC e dall’Accordo di Parigi. L’UE ha espresso delusione per la rimozione di linguaggio concordato sul cambiamento climatico e si è dissociata dal paragrafo 16, mentre altri paesi del Nord globale hanno criticato la mancanza di ambizione. Allo stesso tempo, il G77 e il Gruppo Africano hanno accolto con favore i riferimenti al rafforzamento della rappresentanza dei paesi in via di sviluppo nella governance economica globale, pur esprimendo rammarico per l’assenza di progressi su strumenti concreti come l’allocazione di nuovi SDR o la regolamentazione delle misure commerciali unilaterali (ne è un esempio il Carbon Border Adjustment Mechanism – CBAM dell’Unione europea), percepite come ostacoli al commercio e alla sovranità industriale.

In definitiva, il Compromiso de Sevilla appare più come una fotografia dello stato attuale del dibattito sul finanziamento allo sviluppo che come una tabella di marcia trasformativa. Un compromesso che, pur non rompendo con lo status quo, riesce a mantenere aperto il dialogo multilaterale in un momento politico particolarmente fragile.

La Sevilla Platform for Action, lanciata in vista di FfD4, rappresenta un ulteriore spazio strategico per avanzare l’agenda del finanziamento allo sviluppo oltre i negoziati ufficiali. Questa piattaforma mira a mobilitare alleanze e coalizioni tra paesi “volenterosi” e altri stakeholder per attuare azioni concrete, con l’obiettivo di affrontare sfide comuni e accelerare il progresso verso lo sviluppo sostenibile, come quelle presentate dalla Spagna durante gli Springs Meetings della Banca Mondiale tenutisi lo scorso aprile a Washington.

Rilanciare il multilateralismo, con responsabilità e visione

In un’epoca segnata da crescenti frammentazioni geopolitiche ed erosione della solidarietà internazionale, questa conferenza rappresenta un banco di prova decisivo per la tenuta del multilateralismo. Sebbene imperfetto, lo spazio negoziale delle Nazioni Unite continua a offrire l’unico tavolo inclusivo in cui tutti i Paesi, a prescindere dal loro potere economico, peso geopolitico o appartenenze regionali, possono confrontarsi su sfide globali che nessuno può affrontare da solo.

Per questo, l’Europa, e in particolare l’Italia, hanno la responsabilità e il potenziale di contribuire in modo costruttivo, promuovendo un’agenda trasformativa in grado di bilanciare ambizione e responsabilità condivisa. L’Italia può rafforzare il proprio ruolo globale attraverso un allineamento coerente e strategico tra il Piano Mattei per l’Africa, il Processo di Roma (lanciato con la Conferenza Internazionale su Migrazione e Sviluppo del 2023), il Global Gateway e gli obiettivi multilaterali della FfD4. Ciò implica promuovere partenariati paritari e investimenti capaci di catalizzare una crescita sostenibile e di creare catene del valore nei paesi partner, soprattutto in Africa e nel Mediterraneo allargato, tutelando così interessi strategici comuni dal punto di vista geopolitico e geoeconomico.

L’Italia ha dunque il potenziale di fungere da ponte strategico tra Europa e Africa e da catalizzatore per una maggiore esposizione e coerenza dell’UE su questi temi. Un ruolo, questo, già riconosciuto a livello europeo attraverso il dichiarato allineamento tra il Piano Mattei e l’iniziativa Global Gateway, e che potrà essere ulteriormente consolidata in occasione del vertice congiunto in programma a Roma il 20 giugno 2025.

La finanza per lo sviluppo, se ben orientata, può diventare il perno di un nuovo ordine economico più resiliente, capace di coniugare decarbonizzazione, stabilità e giustizia globale, con effetti positivi di lungo termine per tutte le parti coinvolte.

Foto di Taisia Karaseva

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