Da oggi, lunedì 20 gennaio 2024, Donald Trump è il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca desta non poche preoccupazioni a livello globale, a causa del potenziale impatto che questo potrebbe avere sull’azione per il clima. Preoccupazioni rafforzate anche dal probabile, se non assodato, ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi sul clima di Parigi, come successe durante il primo mandato di Trump.
La nuova presidenza di Trump non cambia la situazione sul clima
L’emergenza climatica e la necessità di agire restano urgenti e necessari. Gli incendi di Los Angeles, ultimi solo in termini di tempo, sono un ulteriore indicatore di tale urgenza, anche e soprattutto per l’elettorato americano. Anche il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), con la pubblicazione a fine 2024 dell’Emissions Gap Report, ha mostrato come le traiettorie attuali non siano in linea con l’azione di riduzione delle emissioni necessaria per mantenere l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 °C. I dati dicono che le emissioni, nel 2023, sono aumentate dell’1,3% rispetto all’anno precedente. Senza mantenere il surriscaldamento globale entro 1,5 gradi nessuna nazione potrà garantire la sicurezza dei popoli. La questione climatica diventa oggi una questione innanzitutto di sicurezza e prosperità economica.
Riuscirà quindi la comunità globale a raggiungere gli obiettivi climatici, abbassando le emissioni e aumentando i flussi finanziari per il clima, anche a fronte di un nuovo ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi?
È innegabile che se Trump rispettasse quanto dichiarato in campagna elettorale, lo sforamento dell’obiettivo 1,5 gradi sarebbe quasi una certezza. Questo è dovuto soprattutto al peso globale degli Stati Uniti, che vale ancora l’11% delle emissioni. Il Paese è inoltre il secondo maggior donatore di finanza per il clima dopo l’Unione europea e il primo contribuente alle casse delle Nazioni Unite.
Tre elementi di speranza per il futuro dell’azione per il clima con la Presidenza Trump
Ci sono tre fattori che possono mantenere viva la speranza per il raggiungimento degli obiettivi climatici.
La prima riguarda il tessuto sociale ed economico degli Stati Uniti. Gran parte della società americana e delle imprese è favorevole alla transizione. Questi attori hanno la possibilità di creare una forte spinta dal basso. Spinta che dovrà però necessariamente essere accompagnata da politiche pubbliche efficaci a livello di città e stati federali.
La seconda considerazione riguarda l’azione degli altri attori sullo scacchiere globale, in primis Europa e Cina, ma anche i grandi Paesi emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Turchia. Una cooperazione economica e industriale efficace tra questi Paesi, fondata su regole commerciali e finanziarie che favoriscono la costruzione di nuovi mercati verdi, la mobilitazione di investimenti e quindi l’innovazione industriale e l’abbattimento dei costi per i consumatori, aiuterebbe a mantenere in vita l’obiettivo di 1,5 e ancor di più quello dei 2 gradi. Da questo punto di vista, saranno fondamentali gli esiti di alcuni processi, come il dibattito sulle tariffe commerciali, la capacità di finanziare la transizione, la definizione dei Piani nazionali di riduzione delle emissioni (Nationally Determined Contibutions – NDCs) in vista della COP30 e la riforma del sistema finanziario internazionale, necessaria per sbloccare gli investimenti per la transizione di tutti i paesi, non solo quelli occidentali.
La terza è che il miglior antidoto resta il multilateralismo, le cui geometrie dovranno probabilmente essere ripensate. Ciò non cambia che solo attraverso il dialogo e la diplomazia sarà possibile avanzare nella sfida climatica. I processi multilaterali sono già avviati e andranno avanti con o senza la partecipazione di Washington perché ci sono troppi interessi economici e di sicurezza in gioco.
Nuove regole commerciali per i mercati verdi
Vi sono certamente dubbi circa il futuro del commercio internazionale, viste le politiche protezionistiche che verranno verosimilmente adottate dall’amministrazione Trump. Oggi la differenza principale rispetto al primo mandato di Trump risiede nel fatto che l’innovazione tecnologica, così come l’ambizione di conquistare i mercati tecnologici verdi di Europa e soprattutto Cina, non è spinta da obiettivi meramente climatici, bensì dalla competitività. Da questo punto di vista, un potenziale passo indietro americano nei mercati green rappresenterebbe un auto-sabotaggio economico, che spingerebbe Cina ed Europa a prendersi ancora più parti di mercato.
Inoltre, l’Europa e la Cina come principali mercati “consumatori” di combustibili fossili condividono l’interesse a ridurre il più velocemente possibile i rischi di prezzo e approvvigionamento derivanti dalla dipendenza dagli import di gas e petrolio. Gli incrementi di prezzo del gas degli ultimi anni sono tra le prime cause dell’inflazione e della spesa pubblica (ricordiamo gli oltre 90 miliardi spesi dall’Italia per far fronte alla crisi dei prezzi del gas del 2022-2023 e i 17 miliardi l’anno che l’Italia spende in sussidi fossili).
Gli ostacoli che rimangono
La nuova Presidenza Trump rafforza le posizioni degli interessi legati ai combustibili fossili, portati avanti da enti che hanno supportato fortemente la sua campagna. Questo livello di influenza è molto presente anche in Europa, Italia inclusa. Un problema che si acuisce quando le industrie del fossile non riescono a presentare soluzioni credibili per raggiungere gli obiettivi climatici e si adoperano per rallentare l’adozione di tecnologie verdi, come rinnovabili, efficienza energetica e auto elettriche.
Un altro grande ostacolo rimane l’incapacità e la mancanza di volontà della politica e delle istituzioni di disegnare politiche pubbliche che rispondono efficacemente ai bisogni della società contemporanea, inclusi quelli legati alla decarbonizzazione. Ecco, dunque, che la spinta dal basso della società e delle imprese che vogliono il cambiamento è più importante che mai, non solo negli Stati Uniti.
Foto di René DeAnda