L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, con importanti presidi nell’industria di base e una fortissima presenza di piccole e medie imprese (PMI): circa 371 mila, che danno lavoro a quasi 3 milioni di persone e contribuiscono al 54% del fatturato del settore, generando un valore aggiunto di 62 mila euro per addetto, un risultato ben superiore alla media europea di 48 mila euro.
Chiunque sarà a capo del prossimo governo avrà il compito di traghettare l’economia italiana nel suo complesso – e le PMI in particolare – attraverso il periodo invernale reso difficile dalla crisi energetica. Dovrà fornire gli strumenti per rispondere allo shock nel breve periodo e indirizzare le risorse verso un adeguamento strutturale non solo nel segmento dell’energia ma anche nell’innovazione dei processi produttivi e dei prodotti. Purtroppo, rispetto a questi interventi strutturali per il futuro delle imprese e la loro capacità di cogliere le opportunità e gestire in modo resiliente i rischi climatici ed energetici, nessuna parola è stata spesa al Forum Ambrosetti di Cernobbio, tenutosi dal 2 al 4 settembre 2022.
La decarbonizzazione, cioè la riduzione o eliminazione della dipendenza dalle fonti fossili e dai loro costi, è la risposta sia alla crisi energetica che all’esigenza di proteggere il tessuto produttivo italiano, garantendone la competitività in futuro. In questo senso, il piano europeo REPowerEU indica l’efficienza energetica e la sostituzione della generazione elettrica a gas con generazione rinnovabile come gli strumenti principali per uscire dalla crisi attuale. La decarbonizzazione, come dimostrato anche dal PNRR, è inoltre la strada maestra per ottenere anche in periodo di crisi quei finanziamenti pubblici e privati che sono fondamentali per l’innovazione e la costruzione di competitività.
Una politica industriale che offra una via di uscita dalla crisi e dia risposte strutturali di lungo periodo deve quindi essere parte di un più ampio piano per il clima, in grado di dare coerenza alle azioni in ambito energetico, economico, di politica industriale e occupazionale all’interno di una politica di emancipazione dalle fonti fossili.
La politica italiana, da sempre debole nell’azione climatica e ora travolta dalla crisi del gas, si è limitata a mettere sul tavolo soluzioni legate alla sola dimensione energetica, ignorando la dimensione industriale e il bisogno delle PMI di modernizzare processi e prodotti. Per il tessuto produttivo italiano, però, la soluzione strutturale alla crisi non passa soltanto dalla scelta della fonte energetica – rinnovabile, nucleare, gas, carbone -, ma anche dalla riduzione della quantità di energia necessaria alla produzione – e conseguentemente del suo costo – e al passaggio alla produzione di beni più concorrenziali e con prospettive di mercato a lungo termine, in quanto coerenti con una domanda di beni e servizi legati a un mondo avviato alla decarbonizzazione. Indipendentemente dalla fonte di energia utilizzata, ciò che preoccupa le PMI italiane non è solo la competitività del proprio prodotto e la propria capacità di superare la crisi, ma anche il poter disporre di risorse per innovare e per approfittare delle opportunità della transizione, come ad esempio quelle che emergono dalla trasformazione elettrica del settore automotive.
La mancanza nella politica italiana di una visione integrata da un piano per il clima e l’incapacità di guardare oltre l’aspetto energetico sono state messe in evidenza dal recente voto al Parlamento europeo sull’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia per gli investimenti sostenibili. In quell’occasione, infatti, gli schieramenti del nostro paese hanno confuso il voto su quello che avrebbe potuto essere il maggior canale di finanziamento per la trasformazione di processi e prodotti del tessuto industriale con una presa di posizione pro o contro gas e nucleare.
L’Italia, però, non avendo un programma nucleare avviato, non ha accesso ai fondi classificati verdi e indirizzati a questo settore e non necessita, rispetto ad altri paesi europei, di particolari investimenti in centrali termoelettriche a gas -unico tipo di investimento gas consentito dalla tassonomia, a condizione che sostituisca generazione a carbone-. Al contrario, come evidenziato nella nostra analisi, il tessuto delle PMI italiane, cruciale per l’economia del Paese, avrebbe enormemente beneficiato da una tassonomia senza gas e nucleare, che avrebbe reso possibile attrarre in maniera significativa gli investimenti necessari per ridurre il rischio del gas e decarbonizzare i processi produttivi: ovvero investimenti in rinnovabili, sistemi di accumulo, efficienza, elettrificazione dei processi, idrogeno verde e sistemi di gestione intelligente dei processi e della domanda. A questi si aggiungono nuovi processi e prodotti su tutta la catena del valore dell’economia circolare, i processi primari e l’indotto dei settori industriali chiave del paese: chimica, acciaio, automotive, cemento.
Note: Per l’Estonia la dipendenza è da scisti bituminosi anziché da carbone. Dato che il voto al Parlamento europeo si è svolto su una mozione per la rimozione di gas e nucleare che necessitava di una maggioranza di voti di sostegno -poi non raggiunta-, le astensioni e le assenze hanno avuto l’effetto di un voto contrario e come tali sono qui considerate.
Un’analisi del voto mostra invece come in molti altri paesi europei sia prevalso un voto ritagliato sull’interesse nazionale. Paesi come Repubblica Ceca, Polonia e Slovenia che hanno programmi nucleari avviati e/o un’alta dipendenza dal carbone, hanno votato in maniera compatta in favore dell’inclusione di gas e nucleare, contando di beneficiare dei fondi verdi per finanziare il proprio mix energetico. Altri paesi che al pari dell’Italia hanno presenza di generazione nucleare e carbone bassa o nulla, quali il Lussemburgo, il Portogallo e l’Austria, hanno invece votato in maniera compatta, da destra a sinistra, contro l’inclusione. La Germania, primo paese industriale europeo e con una politica climatica molto avanzata, ha votato in maggioranza -incluso oltre un terzo delle formazioni di destra- contro l’inclusione di queste tecnologie, nonostante una forte presenza di carbone e nucleare sul proprio territorio. Ciò è accaduto perché il voto tedesco è stato guidato da una corretta comprensione delle finalità della tassonomia, ovvero l’innovazione dei processi produttivi, non tanto il finanziamento del settore elettrico.
Il dibattito su come una politica per il clima possa essere funzionale alla protezione e alla crescita di competitività del tessuto produttivo è ancora molto arretrato in Italia e queste elezioni, le prime in cui è presente la questione climatica, offrono ai partiti l’opportunità di dimostrare di essere in grado di proporre una politica industriale coerente con la nuova realtà che le aziende italiane si trovano ad affrontare. Se la politica si presenta senza un piano, o se il piano è quello di rallentare la transizione, deve essere in grado di giustificare come ciò sia compatibile con il mantenimento della competitività e dell’innovazione, nel momento in cui il resto d’Europa e del mondo, sta accelerando verso un futuro fatto di mobilità elettrica, efficienza energetica e fonti rinnovabili.
Il rischio è che se l’Italia non riesce a mettere al riparo il proprio tessuto produttivo dai rischi del gas in maniera strutturale – e dai rischi del nucleare se questa strada sarà intrapresa -, e a creare le catene produttive dei beni strategici del futuro, sarà costretta, una volta superata l’attuale crisi prezzi, a fronteggiare la deindustrializzazione .
In assenza di scelte politiche basate su una strategia climatica, i partiti rischiano di cercare il consenso proponendo posizioni non supportate da dati e che appaiono di buon senso, ma che non sono in realtà compatibili e strategiche rispetto all’esigenza di rimanere competitivi nel sistema produttivo del futuro.
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