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Clima e conflitti: le nuove coordinate della sicurezza globale

Mentre i Paesi Nato discutono di come raggiungere il nuovo obiettivo del 5% del PIL in difesa e sicurezza, la crisi climatica divide l’Italia in due: temperature estreme al Sud, con picchi potenzialmente attesi fino a 50°C, mai registrati prima in Europa, e fenomeni meteorologici estremi al Nord. Se da un lato l’intensificazione dei conflitti armati ha riacceso il dibattito sul riarmo, dall’altro emergono minacce non convenzionali che ridefiniscono il concetto stesso di sicurezza. La crisi climatica, con i suoi impatti sistemici e trasversali, rappresenta già oggi una delle principali minacce alla vita economica e sociale del nostro Paese e una delle principali fonti di instabilità globale. Senza un’azione rapida, il cambiamento climatico è destinato a diventare la minaccia più grande per l’intero pianeta, come ha ammonito di recente la capa esecutiva della COP30 Ana Toni.  In questo contesto, appare opportuno e necessario adottare una visione più ampia delle minacce da cui i Paesi dovranno difendersi, includendo quindi a pieno titolo anche la “sicurezza climatica”.

Dubbi e incertezze del riarmo europeo

Negli ultimi anni, il mondo ha assistito a una significativa intensificazione dei conflitti armati, la più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Questo scenario ha alimentato una crescita senza precedenti della spesa militare globale, che nel 2024 ha superato i 2700 miliardi di dollari. In questo contesto si inserisce la Dichiarazione dell’Aia, che propone un nuovo target per i Paesi Nato: destinare entro il 2035 il 5% del PIL a difesa e sicurezza, suddiviso tra il 3,5% per spese militari tradizionali e l’1,5% per sicurezza allargata.

Si tratta di una svolta fortemente voluta dall’amministrazione Trump e che rientra, insieme ad altre misure come la guerra dei dazi, in uno schema di politica estera che mira a tutelare la propria posizione geopolitica e geoeconomica nel nuovo ordine mondiale che si sta disegnando. In questo contesto, l’Europa è chiamata a rispondere per proteggere i propri interessi, la propria visione e il proprio ruolo internazionale. Se sul fronte delle guerre commerciali la risposta europea può e deve contare sul Green Deal come strumento a difesa dell’indipendenza e della competitività europea, sulla questione del riarmo l’Europa mostra maggiori debolezze.

Da più parti viene sottolineato come, nonostante l’esistenza di strumenti europei per la sicurezza e la difesa, permangano criticità strutturali che un semplice aumento della spesa militare difficilmente potrebbe sanare. In particolar modo, oltre all’assenza di un esercito europeo, permane l’assenza di un’agenda di politica estera comune ai Paesi membri, che continuano ad avere spesso posizionamenti molto distanti su questioni fondamentali.

In secondo luogo, recenti stime avvertono che il raggiungimento dell’obiettivo del 5% potrebbe pesare sui profili di credito dell’Unione europea con ripercussioni sul risanamento dei conti pubblici di vari paesi, tra cui anche l’Italia. Sebbene la Commissione abbia formulato delle soluzioni per arginare i vincoli di bilancio – come il piano Readiness 2030, con 800 miliardi di investimenti aggiuntivi in difesa, il programma di investimenti SAFE, il programma europeo per l’industria della difesa (EDIF) e la proposta di istituire una banca europea per il riarmo – resta aperta una questione cruciale: quali priorità rischiano di essere sacrificate?

È legittimo chiedersi se l’attuale riorientamento delle priorità di bilancio verso la difesa possa erodere lo spazio fiscale destinato ad altre priorità strategiche e di sicurezza come l’azione climatica, distraendo risorse a supporto di politiche di decarbonizzazione e adattamento domestiche e cooperazione climatica internazionale.

A questo si aggiunge un ulteriore rischio, in termini di emissioni di gas climalteranti. Secondo CEOBOS, il comparto militare globale è infatti responsabile di oltre il 5,5% delle emissioni di gas serra globali. Il rischio, dunque, è che una spesa militare maggiore si traduca in un intensificarsi della crisi climatica. Lo stesso rapporto, inoltre, sottolinea la produzione eccezionale di emissioni dei conflitti armati: a titolo esemplificativo, le emissioni prodotte dalla guerra tra Israele e Hamas durante i primi 120 giorni avrebbero superato la quantità di emissioni prodotte annualmente da 26 paesi.

“Our biggest war” – E se la vera guerra fosse contro il clima?

Se, da un lato, guerre e industria bellica contribuiscono a inasprire la crisi climatica, dall’altro, l’impatto del cambiamento climatico può contribuire a esacerbare conflitti preesistenti o a generarne di nuovi.

Ana Toni, CEO della COP30 di Belém, afferma con decisione che il cambiamento climatico è di gran lunga il rischio maggiore per la sicurezza globale –  “our biggest war” – avvertendo che nessun aumento della spesa militare sarà sufficiente ad affrontare i conflitti che il cambiamento climatico contribuirà a generare se non si agisce con urgenza e visione strategica.

Il cambiamento climatico agisce come moltiplicatore di rischi soprattutto in contesti fragili. Nelle aree di interesse strategico per l’Italia e l’Europa, come il Mediterraneo allargato e l’Africa, l’aumento delle temperature, la siccità, l’innalzamento del livello del mare e gli eventi estremi compromettono la sicurezza idrica e alimentare, minano la stabilità socio-economica e alimentano tensioni politiche. Non mancano esempi concreti. In Siria, l’eccezionale siccità del 2006–2010 ha devastato l’agricoltura e spinto migliaia di persone verso le città, contribuendo, secondo molti analisti, ad esasperare le tensioni socio-economiche che poi sfociarono nelle proteste e nel conflitto civile del 2011. Analogamente, in Africa subsahariana, la competizione per risorse sempre più scarse alimenta scontri tra pastori nomadi e agricoltori stanziali. In Mozambico, i cicloni ricorrenti hanno contribuito a generare instabilità, migrazioni interne e violenza armata.

Eventi climatici estremi possono destabilizzare governi già fragili, drenare risorse pubbliche e compromettere servizi essenziali come sanità, istruzione e sicurezza. Il risultato è un circolo vizioso di povertà, sfiducia e radicalizzazione.

Questo nesso tra clima e sicurezza è stato ormai ampiamente riconosciuto. Diversi attori si stanno attrezzando per integrarlo nelle proprie strategie. Ne sono esempi la prima National Intelligence Estimate degli Stati Uniti del 2021, la Strategia per il Clima e la Difesa adottata dalla Francia nel 2022, la Climate Foreign Policy annunciata dalla Germania nel 2023 e la Roadmap dell’Unione europea in materia di cambiamenti climatici e difesa. Anche la Nato nel suo Strategic Concept del 2022 ha inserito il cambiamento climatico nella sua agenda, creando inoltre nel 2024 un Centro di eccellenza dedicato – il NATO Climate Change and Security Centre of Excellence (CCASCOE). Il Consiglio pace e sicurezza dell’Unione Africana ha recentemente pubblicando l’Africa Climate Security Risk Assessment – Addressing the Impacts of Climate Change on Peace and Security across the African Continent.

In questo panorama, l’Italia resta un’assenza significativa. Nonostante la sua posizione strategica nel Mediterraneo – crocevia di rotte migratorie, hotspot climatico e area di tensioni geopolitiche – non dispone ancora di un quadro di politica estera che integri sistematicamente i rischi climatici.

Investire in un futuro più sicuro

In ambito politico, la consapevolezza sul legame tra clima e sicurezza è cresciuta. Tuttavia, l’attuazione concreta degli impegni non è ancora sufficiente. Il divario tra ambizione e realtà è particolarmente evidente sul piano finanziario. Mentre si moltiplicano le dichiarazioni di intenti, le risorse disponibili per affrontare la crisi climatica restano limitate.

Investire in sicurezza climatica significa prevenire perdite e danni futuri ma anche conflitti e grandi movimenti forzati di persone. Ridurre le emissioni, rafforzare la resilienza delle comunità vulnerabili e supportare i paesi fragili ad adattarsi e a fronteggiare le perdite e i danni subiti significa disinnescare alla radice nuove minacce. Tutto questo richiede una mobilitazione finanziaria sia su scala europea, per il fabbisogno di investimenti domestici, che su scala globale, nell’ordine delle migliaia di miliardi.

La recente Conferenza sul Finanziamento allo Sviluppo di Siviglia ha mostrato quanto la risposta internazionale sia ancora inadeguata. Il calo dell’aiuto pubblico allo sviluppo (ODA – Official Development Assistance) nei confronti dei Paesi più vulnerabili e il contemporaneo aumento della spesa militare impongono una riflessione urgente sulle priorità globali.

Uno studio di ODI Global analizza gli impegni dei Paesi membri della Nato e del Comitato per l’Aiuto allo Sviluppo (CAS) dell’OCSE rispettivamente a dedicare il 2% del PIL alla difesa e lo 0,7% del reddito nazionale lordo (RNL) agli aiuti allo sviluppo. Mentre la spesa per la difesa ha superato stabilmente il 2%, quella per gli aiuti allo sviluppo è rimasta ben al di sotto dello 0,7%. Tra il 2018 e il 2023, i bilanci militari sono cresciuti in media del 65%, mentre dal 2024 sono stati annunciati tagli all’aiuto pubblico allo sviluppo che potrebbero ridurne i volumi del 31% entro il 2029.

Gli Stati Uniti, che fino a poco tempo fa contribuivano a circa il 30% degli aiuti globali, hanno smantellato l’agenzia USAID e cancellato programmi per oltre 75 miliardi di dollari. Anche altri donatori – tra cui Canada, Nuova Zelanda, Austria e diversi Paesi UE – hanno annunciato tagli. Il Regno Unito ha giustificato le riduzioni proprio con la necessità di aumentare il bilancio per la difesa.

Anche il bilancio europeo è in fase di ristrutturazione. La proposta per il nuovo Multiannual Financial Framework (MFF, 2028–2034), benché preveda un aumento netto dei fondi per l’azione esterna, solleva alcuni dubbi. Secondo il nuovo schema, la quasi totalità dei fondi verrà inglobata in un unico strumento finanziario, il Global Europe, senza garantire una percentuale minima allo sviluppo. Il timore è che questo nuovo approccio, adottato per garantire flessibilità, si traduca in una ridistribuzione dei fondi a priorità contingenti, a scapito della cooperazione.

Nel frattempo, anche il sistema delle Nazioni Unite è sotto pressione, tanto che si discute di tagli al personale, accorpamenti tra agenzie e razionalizzazioni strutturali. Questo, proprio quando servirebbe rafforzare la governance multilaterale, attraverso sinergie tra le agende di sicurezza, sviluppo e clima.

In questo scenario, è fondamentale interrogarsi: quale investimento garantisce davvero la sicurezza globale? È realistico pensare che l’aumento della spesa militare possa rispondere alla frammentazione geopolitica e alla crisi del multilateralismo? Non sarebbe più efficace rafforzare la cooperazione, la resilienza e la sicurezza climatica?

La sicurezza per l’Italia

L’Italia ha l’opportunità e la responsabilità di tracciare una rotta alternativa. In linea con l’ambizione internazionale e gli impegni del Piano Mattei per l’Africa, nel 2024, il nostro Paese ha aumentato del 25% il contributo all’Agenzia Internazionale dello Sviluppo della Banca Mondiale (IDA). Secondo i dati OCSE, l’aiuto pubblico allo sviluppo italiano è cresciuto del 6,7% rispetto all’anno precedente, a fronte di un calo globale del 7,1%. Un segnale incoraggiante, ma ancora distante dall’obiettivo internazionale dello 0,7% del RNL. Nel 2024, l’Italia si è fermata allo 0,28%.

Sul fronte della difesa, l’Italia nello stesso anno ha speso circa l’1,5% del PIL e ha dichiarato l’intenzione di raggiungere gradualmente il nuovo target NATO del 5% entro il 2035, compatibilmente con i vincoli di bilancio. Per farlo, prevede di includere nel computo voci finora escluse, come Guardia Costiera, Guardia di Finanza, cybersicurezza e, in modo controverso, anche infrastrutture come il ponte sullo Stretto di Messina, se considerate strategiche.

Riconoscere che la sicurezza oggi non si esaurisce nella sola dimensione militare, ma abbraccia anche gli aspetti climatici, sociali ed economici, impone di ridefinire senza indugi le priorità nazionali. L’idea alla base di queste proposte può rappresentare un punto di partenza per avviare una riflessione su cosa sia sicurezza oggi per l’Italia. Si tratta di dare concretezza alla dimensione della sicurezza climatica, integrandola sia nelle politiche interne che nella proiezione internazionale dell’Italia, in particolare nel Mediterraneo e in Africa.

Raccomandazioni

Per affrontare le sfide interconnesse del nostro tempo, è necessario superare una visione ristretta della sicurezza e adottare un approccio integrato, che riconosca il cambiamento climatico come una minaccia sistemica alla stabilità globale.

  • La comunità internazionale dovrebbe privilegiare un concetto di sicurezza in grado di rispondere alle molteplici sfide interconnesse dell’età contemporanea, che includa la dimensione climatica come elemento centrale. I rischi legati al clima, in termini di perdite economiche, umane e instabilità, devono essere riconosciuti come priorità strategica. In quest’ottica, la cooperazione climatica può diventare un ponte tra blocchi geopolitici contrapposti, contribuendo a ridurre le tensioni e a rafforzare il dialogo multilaterale.
  • L’Unione Europea dovrebbe garantire che l’aumento della spesa per la difesa non avvenga a scapito del Green Deal. Ogni incremento dovrebbe essere accompagnato da investimenti equivalenti in progetti climatici, in particolare in adattamento e infrastrutture resilienti.
  • L’Italia dovrebbe dotarsi di una strategia nazionale su clima e sicurezza, che integri l’analisi dei rischi climatici nella politica estera, nella cooperazione e nella sicurezza interna. La quota Nato dell’1,5% del PIL destinata alla sicurezza allargata dovrebbe essere impiegata per rafforzare la resilienza dei territori e delle comunità, attraverso investimenti in infrastrutture critiche resilienti, interventi di adattamento e messa in sicurezza del territorio.
  • In politica estera, il Piano Mattei e il Processo di Roma dovrebbero essere orientati verso investimenti strutturali in resilienza climatica nei Paesi partner, promuovendo traiettorie di sviluppo condivise che tengano conto degli impatti diretti e indiretti della crisi climatica. La transizione energetica deve diventare il fulcro di nuovi modelli di cooperazione economica. L’Italia può giocare un ruolo guida nel promuovere l’integrazione energetica regionale nel Mediterraneo, sostenendo iniziative come TeraMed e facilitando il trasferimento di tecnologie e competenze.
  • Per rafforzare la coerenza delle politiche pubbliche, è urgente istituire una task force interministeriale che coordini le iniziative di politica estera, difesa, cooperazione e ambiente, assicurando l’allineamento con gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi. Questa struttura dovrebbe essere supportata da tavoli di lavoro permanenti con esperti, società civile e settore privato, per monitorare i rischi climatici e aggiornare gli strumenti di policy. Anche le forze armate potrebbero avere un ruolo maggiore nella gestione dei rischi e delle emergenze climatiche, dotandosi di centri di eccellenza per l’analisi dei rischi climatici e reparti specializzati per emergenze climatiche da attivare all’occorrenza.

Foto di Jannik

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