Le elezioni americane hanno avuto un risultato rapido e netto: il nuovo Presidente degli Stati Uniti sarà Donald Trump.
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca desta non poche preoccupazioni a livello globale, a causa del potenziale impatto che questo potrebbe avere sull’azione climatica globale. Preoccupazioni rafforzate anche da un precedente, ovvero quello del ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi durante il primo mandato di Trump.
La nuova presidenza di Trump non cambia la situazione sul clima
L’emergenza climatica e la necessità di agire restano urgenti e necessari. Ciò è stato sottolineato di recente anche dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) con la pubblicazione dell’Emissions Gap Report, che mostra come le traiettorie attuali non siano in linea con l’azione di riduzione delle emissioni necessaria per mantenere l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 °C, ovvero ridurre le emissioni globali del 42% entro il 2030 rispetto al 2019. I dati, invece, dicono che le emissioni nel 2023 sono aumentate dell’1,3% rispetto all’anno precedente. Questa urgenza è resa ancora più evidente dai recenti avvenimenti climatici estremi. Ultimi, solo in ordine di tempo, quelli in Spagna e in Florida.
La grande domanda che la comunità internazionale si sta ponendo in questo momento riguarda la capacità del mondo di raggiungere gli obiettivi climatici, abbassando le emissioni e aumentando i flussi finanziari per il clima, anche a fronte di un nuovo ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.
È innegabile che se la nuova amministrazione Trump rispettasse quanto dichiarato in campagna elettorale, lo sforamento dell’obiettivo sul clima di 1.5 sarebbe quasi una certezza. Questo è dovuto soprattutto al peso globale degli Stati Uniti, che vale ancora l’11% delle emissioni. Il Paese è inoltre il secondo maggior donatore di finanza per il clima dopo l’Unione europea e il primo contribuente alle casse delle Nazioni Unite.
Tre elementi di speranza per il futuro dell’azione climatica
Tuttavia, ci sono tre fattori che possono mantenere viva la speranza per il raggiungimento degli obiettivi climatici nello scenario che si è configurato dopo le elezioni.
La prima riguarda il tessuto sociale ed economico degli Stati Uniti: gran parte della società americana e delle imprese è favorevole alla transizione. Questi attori hanno la possibilità di creare una forte spinta dal basso. Spinta che dovrà però necessariamente essere accompagnata da politiche pubbliche efficaci a livello di città e stati federali.
La seconda considerazione riguarda invece l’azione degli altri attori sullo scacchiere globale, in primis Europa e Cina, ma anche i grandi Paesi emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Turchia. Una cooperazione economica e industriale efficace tra questi Paesi nei prossimi quattro anni aiuterebbe a mantenere in vita l’obiettivo 1.5 e ancor di più quello di 2 gradi. Da questo punto di vista, saranno fondamentali gli esiti di alcuni processi, come il dibattito per la definizione dei Piani nazionali di riduzione delle emissioni (Nationally Determined Contibutions – NDCs), in vista della COP30, la risposta della Cina al risultato elettorale negli Stati Uniti e la riforma del sistema finanziario internazionale, necessaria per sbloccare gli investimenti per la transizione.
La terza è che il miglior antidoto resta il multilateralismo, le cui geometrie dovranno probabilmente essere ripensate. Ciò non cambia che solo attraverso il dialogo e la diplomazia sarà possibile avanzare nella sfida climatica. I processi multilaterali sono già avviati e andranno avanti con o senza la partecipazione di Washington. La COP29 di Baku sarà il primo grande test della volontà dei Paesi di avanzare indipendentemente dalla posizione americana.
Nuove regole commerciali per i mercati verdi
Vi sono poi dubbi circa il futuro del commercio internazionale, viste le politiche protezionistiche che verranno verosimilmente adottate dall’amministrazione Trump. Oggi la differenza principale rispetto al 2016, anno di inizio del primo mandato di Trump, è che l’innovazione tecnologica, così come l’ambizione di conquistare i mercati tecnologici verdi di Europa e soprattutto Cina, non è spinta tanto da obiettivi climatici, bensì dalla competitività. Da questo punto di vista, un potenziale passo indietro americano nei mercati green rappresenterebbe un auto-sabotaggio economico, che spingerebbe Cina ed Europa a prendersi ancora più parti di mercato.
Il Parlamento italiano vuole avanzare nell’azione sul clima, nonostante Trump
All’indomani del voto americano, è arrivato un segnale importante, che fa auspicare alla volontà di rafforzare la cooperazione e il multilateralismo. Ieri, il Parlamento italiano ha approvato una mozione di maggioranza e diversi impegni proposti dalle opposizioni, che non sono riaffermano il multilateralismo come l’unico spazio in cui l’azione per il clima funziona, ma prevedono anche nuovi impegni per il Governo italiano come il supporto all’iniziativa TeraMed e un rinnovo dei contributi al Fondi di adattamento attraverso i proventi della aste ETS.
Gli ostacoli che rimangono
La vittoria di Trump rafforza le posizioni degli interessi legati ai combustibili fossili, portati avanti da enti che hanno supportato fortemente la sua campagna. Questo livello di influenza, molto presente anche nelle società europee inclusa l’Italia, è un problema nel momento in cui le industrie del fossile non riescono a presentare soluzioni credibili per raggiungere gli obiettivi climatici.
L’altro grande ostacolo rimane l’incapacità e la mancanza di volontà della politica e delle istituzioni di disegnare politiche pubbliche che rispondono efficacemente ai bisogni della società contemporanea, inclusi quelli legati alla decarbonizzazione. Ecco dunque che la spinta dal basso della società e delle imprese che vogliono il cambiamento è più importante che mai, non solo negli Stati Uniti.
Foto di René DeAnda