Il nucleare per la produzione di elettricità emette CO2?
No, il nucleare è una tecnologia che non contribuisce direttamente all’emissione di gas-serra.
Il nucleare è una fonte rinnovabile?
No. L’attuale tecnologia e quelle del futuro prossimo utilizzano, in misura maggiore o minore, un elemento non rinnovabile: l’uranio.
Inoltre, la gestione in completa sicurezza di lungo termine dei rifiuti radioattivi richiede trattamenti e confinamenti secolari in impianti che al momento ancora non esistono. Quindi, non solo non è rinnovabile l’input della tecnologia attuale, ma viene anche scaricato sulle prossime generazioni il problema delle scorie.
Qual è il contributo del nucleare oggi e nei principali scenari di decarbonizzazione al 2050?
A livello globale, la quota di elettricità prodotta da nucleare si attesta attorno al 10%. Nello scenario Net-Zero Emission 2050, l’Agenzia Internazionale dell’Energia IEA stima, a livello globale, una quota di nucleare (anche nuovo) in calo all’8% in un mix ottimale di energia elettrica decarbonizzata.
A livello europeo, il nucleare rappresentava, nel 2022, il 25% della generazione elettrica e il 14% dei consumi energetici primari. Secondo la strategia 2050 di decarbonizzazione della Commissione UE, la quota di generazione elettrica nucleare nel 2050 scenderà al 15%. Questo richiederà comunque la sostituzione di una parte degli impianti esistenti che si approssimano alla fine della vita utile, soprattutto in Francia.
Il nucleare può rappresentare un’alternativa di breve periodo alla sostituzione dei combustibili fossili con le fonti rinnovabili?
No. A livello globale, le rinnovabili andranno a coprire il 90% della generazione elettrica secondo lo scenario Net-Zero Emissions 2050 della IEA. In Europa la generazione da rinnovabili è prevista all’85% nel 2050. Sole e vento da soli già producono più elettricità rispetto al nucleare nel mondo, e a livello europeo hanno superato la produzione da fossili.
Cosa mostra l’esperienza recente sui tempi e i costi di realizzazione delle centrali nucleari?
Tempi lunghi e costi di realizzazione proibitivi.
L’ultimo impianto entrato in servizio in Finlandia nel gennaio 2022 (Olkiluoto 3) è un’unità di 1600 MW la cui realizzazione è costata 11 miliardi di euro (circa 10 volte più di centrali a gas per pari potenza e 5 volte di più di parchi eolici terrestri per pari potenza in Italia) e ha richiesto 17 anni di lavori dall’inizio della costruzione, senza includere i tempi di progettazione e autorizzazione.
Il terzo reattore dell’impianto di Flamanville, in Normandia, in passato partecipato da Enel, ha richiesto oltre 15 anni di lavori, con un budget che è quasi quadruplicato (salito da 3,3 a circa 13 miliardi di Euro).
Il sito in costruzione a Hinkley Point nel Regno Unito – costo iniziale stimato di 18 miliardi di sterline, già lievitato a 26 – è stato finanziato grazie all’impegno del Governo (e quindi dei suoi contribuenti) a contrattualizzarne la fornitura per 35 anni a un prezzo di 92,50 sterline per MWh a prezzi del 2012, soggetto ad aggiornamenti al rialzo. Più del doppio del prezzo che esprimeva il mercato locale dell’elettricità alla firma dell’accordo nel 2016, e solo nel pieno della crisi del 2022-23 si sono visti prezzi di mercato più alti.
L’energia nucleare costa meno di altre fonti e consente di abbassare le bollette?
No, e generalmente una parte cospicua dei suoi costi viene socializzata con le tasse.
In termini di costi medi, il nucleare non è, salvo casi particolari, tra le fonti più economiche disponibili. Secondo i dati di IEA e NEA (agenzie per l’energia e per l’energia nucleare dell’OCSE) la fonte più economica è generalmente il fotovoltaico.
Inoltre, è fuorviante riferirsi al nucleare come una fonte economica solo in relazione a bassi costi variabili della sua produzione, riferiti perlopiù all’approvvigionamento di uranio come materiale fissile. Se si applicasse lo stesso ragionamento alle rinnovabili, queste dovrebbero considerarsi gratuite.
Il fatto che i costi del nucleare siano perlopiù fissi, unito agli enormi investimenti necessari e alle risorse per la gestione dei rischi (statisticamente ridotti ma di dimensione unitaria troppo grande per essere assicurabili dai privati), fa sì che il nucleare sia tipicamente pagato attraverso le tasse anche nei Paesi con economie di mercato, come la Francia, dove per anni una legge ha previsto che parte della produzione venga ceduta da Électricité de France a prezzo politico. Malgrado questo, la Francia ha più volte espresso prezzi all’ingrosso dell’energia tra i più alti d’Europa proprio a causa dell’insicurezza che il suo sistema elettrico subisce per l’obsolescenza e la scarsa modulabilità delle centrali nucleari in servizio.
Il nucleare ha costi di lungo periodo più alti di altre fonti?
Sì. Di gran lunga.
Oltre alla complessa gestione delle scorie, la dismissione di impianti di generazione elettrica nucleare è resa complessa e onerosa dalla gestione del materiale radioattivo, che include le parti delle macchine che vengono irraggiate durante il funzionamento. Si tratta di sforzi tecnici e organizzativi enormi che anche nelle economie di mercato finiscono per essere socializzati.
In Italia lo smaltimento delle quattro centrali, perlopiù piccole, in servizio al momento del referendum del 1987 sta risultando lento e oneroso. Il costo si attesta per ora a oltre 20 miliardi e dopo più di 35 anni dal referendum il lavoro è lontano dall’essere concluso. Si tratta di costi a carico delle bollette elettriche attraverso una componente regolata specifica (A2RIM). Dal 2010 al 2021 il valore complessivo è stato di 3,9 miliardi di euro. Inoltre, l’Italia non ha ancora individuato un sito di deposito delle scorie, pur essendo stata da tempo acquisita dal Governo una mappa di siti potenzialmente idonei.
Il nucleare è adatto a complementare le fonti rinnovabili?
No. Gli impianti termonucleari non sono adatti a modulare la produzione elettrica, cioè a modificarla rapidamente sulla base del fabbisogno di consumo al netto della produzione da fonti rinnovabili non programmabili (tale differenza tra consumo e rinnovabili non programmabili è detta domanda residuale).
I reattori a fissione, anche se la reazione primaria viene interrotta, continuano a produrre calore a lungo e tale calore dev’essere smaltito con dispendio di energia per non danneggiare il nocciolo. Inoltre, le transizioni tra diversi livelli di potenza della reazione a catena sono generalmente più complesse rispetto a quelle di altre fonti programmabili di generazione elettrica. Infine, i costi fissi altissimi di un impianto termonucleare rendono improponibile anche sul piano meramente economico pagare una centrale per farla funzionare in modo discontinuo.[1]
Di conseguenza, la rigidità del nucleare è un problema e non un sollievo per il sistema elettrico, e aumenta la necessità di accumuli. La decarbonizzazione dei sistemi elettrici richiede un alto livello di flessibilità, che il nucleare non è adatto a fornire, per complementare la variabilità delle rinnovabili. Questa flessibilità e il bilanciamento del sistema si possono invece assicurare con interconnessioni di rete, accumuli (come l’idroelettrico, potenzialmente idrogeno, le batterie – si veda per queste ultime il caso di successo della California) e sistemi di gestione intelligente della domanda.
Sta arrivando il nucleare “pulito, sicuro e illimitato”, come la fusione?
No e non a breve.
La ricerca sta da tempo cercando soluzioni tecnologiche per reattori a fusione, anche attraverso il programma internazionale di ricerca ITER, a cui partecipa l’Italia con un sito di sperimentazione a Frascati. Il primo reattore dimostrativo, il progetto DEMO, se tutto procede secondo i piani e in forte discontinuità rispetto ai ritardi del passato, potrebbe essere pronto nel 2050.
Il coinvolgimento in prima fila dell’Italia nella ricerca mondiale in materia dimostra come i referendum sul nucleare e le decisioni post-Fukushima non limitino la ricerca in materia nel nostro Paese ma ciò non significa che la fusione arriverà nei tempi utili per la decarbonizzazione nazionale e globale.
Opzioni di nucleare a fissione ma con meno uso di uranio e meno produzione di scorie sono state tentate, per ora senza successo in termini di applicazioni commerciali, con gli impianti a fissione autofertilizzanti, tra i quali quello sperimentale di dimensioni industriali “Superphoenix” in Francia, partecipato da Enel, poi chiuso nel 1996. Nuovi sviluppi in materia, di taglia più piccola (i cosiddetti Advanced Modular Reactor, o AMR, in grado in varia misura di autofertilizzarsi – “breeder reactor”) verranno sperimentati anche in Italia ma sono ovunque lontani da applicazioni commerciali.
Cosa sono i “piccoli reattori modulari” che il Governo vuole adottare in Italia?
Gli SMR, o Small Modular Reactor, sono reattori di taglia ridotta, più compatti e quindi assemblabili direttamente negli stabilimenti del costruttore con maggiore standardizzazione ed economicità. Per ora non ci sono impianti commerciali ma esistono produttori, anche in Europa, che ne stanno iniziando lo sviluppo.
La prima generazione di questi reattori non avrà logiche di funzionamento sensibilmente differenti da quelle dell’attuale tecnologia di impianti più grandi. Ne consegue che essi non risolveranno né il problema delle scorie né la dipendenza da materiale fissile. Inoltre, se distribuiti sul territorio, richiederebbero una moltiplicazione dei presidi di sicurezza (nonché maggiori difficoltà di autorizzazione) che potrebbero annullarne i vantaggi attesi di economicità costruttiva.
Il nucleare progettato oggi è un’opzione per contribuire agli obiettivi di decarbonizzazione dell’Italia?
No e non significativamente in termini di obiettivi al 2030, 2040 e 2050.
Nel percorso di decarbonizzazione, come da impegni europei e G7, il settore elettrico italiano dovrà raggiugere la quasi completa decarbonizzazione entro il 2035. Questo passaggio costituisce un pilastro del processo anche degli altri settori – edifici, industria e trasporti – che dovrà compiersi nel decennio successivo per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. I tempi di realizzazione del nucleare in Italia non sono compatibili con queste scadenze che rendono l’opzione del nucleare la meno realistica e concreta.
Il nucleare può generare un impatto concreto all’interno di questa legislatura?
No. Perché, da un lato, non è in discussione il proseguimento dell’impegno italiano nella ricerca in materia (in particolare con Enea). Dall’altro, non esistono decisioni nell’arco della legislatura che possano rendere il nucleare, nemmeno quello di attuale generazione, disponibile entro il 2040, in un Paese come l’Italia che non è dotato di impianti e non ha ancora risolto la questione delle scorie.
Il nucleare serve alla decarbonizzazione dell’Italia?
Non nei tempi rilevanti per affrontare la questione climatica e rispondere alle esigenze sociali e di competitività. Il nucleare oggi in Italia è una falsa soluzione perché è una tecnologia che non rientra tra le opzioni disponibili per l’azione di breve o medio termine per il clima e la competitività. Azioni non rimandabile in attesa di soluzioni futuribili.
Quindi il dibattito sul nucleare non può esimere il decisore pubblico dal rendere possibile un sistema elettrico italiano che permetta il raggiungimento degli obiettivi climatici al 2030, 2035, 2040, 2050 con gli strumenti effettivamente disponibili: fonti rinnovabili, accumuli, reti, flessibilizzazione della domanda elettrica.
Se il nucleare non è rilevante per l’Italia, perché è così al centro del dibattito mediatico e politico?
La discussione in Italia sul nucleare è trainata non dai fatti e dalla realtà del nucleare ma dall’influenza di interessi particolari non interessati agli obiettivi climatici ma a distrarre lo spazio politico e mediatico dalle soluzioni efficaci per il clima e la società, e presentare un’immagine di sostenibilità che tuttavia non rispecchia la realtà, rientrando a tutti gli effetti nella definizione di greenwashing.
NOTE
[1] In alcuni casi, come in Regno Unito con il reattore di Sizwell B, a causa della bassa flessibilità della produzione nucleare, il gestore della rete è dovuto intervenire pagando l’impianto – per poi socializzare tali costi – per ridurne la produzione in periodi di bassa domanda residuale. La stessa cosa si è ripetuta per settimane in Spagna nella primavera 2024.