Al termine di un’estate che ha mostrato con evidenza l’impatto del cambiamento climatico la necessità di forti politiche di mitigazione e adattamento è sempre più impellente.
Non solo è vitale ridurre drasticamente le emissioni di gas climalteranti, causa degli aumenti di temperatura le cui conseguenze che stanno già distruggendo in maniera irreparabile interi ecosistemi, ma è necessario imparare a gestire al meglio gli impatti già reali del cambiamento climatico: creando – e aggiornando- mappe di vulnerabilità e sviluppando piani di tutela per le popolazioni.
Qual è, quindi, realmente la situazione? Cosa dovrebbero fare, in concreto, i nostri governi? Ne abbiamo parlato con Roberta Boscolo, Responsabile Scientifico per Clima e Energia dell’Organizzazione Mondiale della Meteorologia.
Dott.ssa Boscolo, l’Organizzazione Metereologica Mondiale (OMM), dove lei lavora, ha recentemente pubblicato lo stato attuale della scienza sul clima. Di cosa si tratta? Quali sono i principali risultati?
United in Science 2022 è una pubblicazione redatta dalla OMM che ogni anno fa il punto sulla conoscenza scientifica relativa al cambiamento climatico. Giunta già alla sua quarta edizione, i risultati, anche quest’anno, non sono incoraggianti.
Il primo dato, e forse il più indicativo, è che la concentrazione di emissioni climalteranti continua ad aumentare nell’atmosfera del nostro pianeta, nonostante la riduzione di gas serra durante la pandemia. Nel 2021, infatti, il livello di emissioni globali di CO2 è ritornato ai preoccupanti valori pre-pandemici, dopo una breve ma sostanziale riduzione nel 2020.
Queste condizioni sono la causa dell’aumento delle temperature globali medie terrestri e dei mari. Come rilevato dalla OMM nel rapporto State of the Climate 2021, gli ultimi 7 anni sono stati gli anni più caldi registrati fino ad ora.
Il dato che colpisce maggiormente e che dovrebbe far suonare più di un campanello d’allarme è la probabilità, 48%, che almeno uno dei prossimi 5 anni potrebbe registrare una temperatura media globale superiore a 1.5 gradi rispetto alle temperature medie pre-rivoluzione industriale.
Sentiamo spesso parlare di decade “critica”, ossia l’ultima finestra di possibilità per mantenere l’incremento di temperatura entro 1,5° come concordato nell’Accordo di Parigi nel 2015. Potrebbe spiegare anche ai non addetti ai lavori che cosa significa?
In realtà l’obiettivo da raggiungere è chiaro: stabilizzare l’incremento di temperatura durante il 21mo secolo a un valore sotto i 2 gradi °C e preferibilmente attorno a 1.5 gradi. La difficoltà sta nel percorso da seguire per raggiungere questo obiettivo.
Infatti, considerando il ritmo attuale di circa 40 miliardi di tonnellate di CO2 emesse ogni anno, per fermare il riscaldamento globale dovremmo ridurre le emissioni da ora, fino a dimezzarle per il 2030. E continuare allo stesso ritmo di riduzione fino ad arrivare a una neutralità climatica (net-zero) nel 2050. Cioè abbiamo solamente 8 anni per ridurre le emissioni del 5% ogni anno e rientrare in questo cammino di decarbonizzazione.
L’insieme di promesse fatte finora dai paesi firmatari dell’accordo di Parigi mostra invece uno sforzo di riduzione chiaramente insufficiente. La somma delle ambizioni presentate ad oggi porta a una stima di incremento di temperatura a 2.8 gradi durante questo secolo. Il concetto di neutralità climatica, net-zero, nel 2050 significa arrivare a un bilancio zero tra le emissioni di CO2 per combustione fossile e attività umana, e la quantità di CO2 che viene assorbita da processi ecosistemici (foreste, oceani etc.). Attualmente il 40% delle emissioni di CO2 per attività umana si accumula nell’atmosfera.
Vorrei sottolineare che secondo le osservazioni climatiche, il nostro pianeta ha già registrato un aumento di 1.1 gradi rispetto alle temperature medie nel periodo pre-industriale, 1850-1900, e questo ha intensificato fenomeni meteorologici estremi. Ogni frazione di aumento di temperatura sta cambiando il nostro clima in maniera davvero imprevedibile e pericolosa. Vogliamo davvero arrivare a 1.5°C? A 2°C? Ogni piccolo aumento può davvero fare la differenza, anche i centesimi di grado
L’istituto per la ricerca climatica di Potsdam ha recentemente pubblicato una recensione dei tipping points, indicando che già all’attuale temperatura c’è la possibilità di superare alcune soglie. Ci può spiegare cosa sono e perché c’è tanta preoccupazione?
I tipping points – o punti di non ritorno – sono alcune aree o fenomeni che mostrano con evidenza la complessità dei processi climatici del nostro pianeta. Questi contesti sono caratterizzati da elementi di soglia: fluttuano fino ad una certa condizione ma una volta superata la variabile-soglia, collassano in un nuovo stato la cui condizione diventa irreversibile per molti millenni, anche se fossimo capaci di fermare il riscaldamento globale.
Il collasso di questi sistemi, tipo la corrente di convezione del Nord Atlantico, i ghiacciai polari, la deforestazione dell’Amazzonia, monsoni etc., ha gravi impatti a livello globale e regionale sull’ambiente e minaccia il sostentamento di molte persone.
La distribuzione geografica dei tipping points globali e regionali, codificati a colori in base alla migliore stima della loro soglia di temperatura, oltre la quale l’elemento sarebbe probabilmente “collassato”. Figura disegnata al PIK, basata su Armstrong McKay et al., Science (2022).
Cosa significa accelerare per chiudere il gap di emissioni al 2030? E nello specifico, cosa significa per l’Europa e l’Italia?
Solamente 9 membri del G20 hanno hanno ufficializzato un percorso di riduzioni di emissioni secondo le indicazioni dell’accordo di Parigi. E nessuno di questi paesi è in un percorso accelerato verso net-zero. Solamente 5 di questi nove membri, che rappresentano circa un quinto delle emissioni globali di gas a effetto serra, hanno obbiettivi di riduzione delle emissioni che si traducono in un percorso lineare. Negli altri 4 paesi, c’è bisogno urgente di piani climatici più ambiziosi a breve termine per raggiungere il net-zero in 2050.
fonte UNEP 2021
L’Europa è uno dei blocchi di paesi con le politiche più efficaci rispetto alla riduzione delle emissioni e l’Italia stessa le sta diminuendo.
Lo sforzo virtuoso dell’Europa non è, tuttavia, sufficiente per un impatto globale, è necessario quindi lavorare attraverso la diplomazia climatica per far sì che anche altri paesi possano implementare politiche di riduzione delle emissioni, mitigazione e adattamento.
Cosa significa che l’Italia è in un “hotspot” climatico? Quali dovrebbero essere secondo lei le priorità di un’azione di Governo allineata a una traiettoria di un grado e mezzo?
“Hotspot” climatico è una zona geografica dove uno o più indicatori climatici sono più elevati, in valore assoluto, con rispetto alla media globale.
Il Mediterraneo, per esempio, è un hotspot, siamo testimoni di fenomeni estremi in questa area geografica, basti pensare a questa estate e alle temperature raggiunte, alla siccità e al fatto che il mare Mediterraneo è stato uno dei mari più caldi a livello globale. Il deficit di precipitazioni, la siccità e la combinazione di varie ondate di calore ha portato a conseguenze estreme sui fiumi e sui trasporti fluviali, sulle riserve di acqua per energia l’idroelettrica e per l’agricoltura.
Le previsioni per i prossimi mesi non sono confortanti. Fenomeni estremi potrebbero continuare. Quanto accaduto nei giorni scorsi nelle Marche rischia di ripetersi in altre zone del Paese altrettanto fragili.
Il governo dovrebbe mappare le zone più vulnerabili nel nostro territorio e cominciare ad applicare misure di protezione per rendere queste zone più resilienti. Siccome i rischi climatici evolvono con il cambio climatico e sociale, queste mappature di vulnerabilità devono essere aggiornate con frequenza annuale, per anticipare e mitigare i futuri impatti.
Che aspettative ha per la COP?
Siamo alla 27° COP e, nonostante le evidenze scientifiche, non tutti sono d’accordo su quale sia la causa dei cambiamenti climatici e, di conseguenza, quali siano le misure da applicare; come aiutare i paesi più vulnerabili; come essere più resilienti; quali siano gli investimenti necessari sulle tecnologie climatiche per iniziare a ridurre le emissioni.
La COP27 rischia di essere, nuovamente, poco efficace: tanti attori, tanti annunci, molto clamore ma poi rischia di finire tutto con un nulla di fatto.
Purtroppo, anche in Italia, il cambiamento climatico e l’adattamento alla crisi climatica non sono stati argomenti al centro del dibattito politico. L’attenzione dell’opinione pubblica è focalizzata sul futuro del nuovo governo e su come verranno affrontate le contingenze. Ma la crisi climatica continua a essere un’emergenza e mai come ora serve una leadership in grado di trovare soluzioni.
La crisi dell’energia è stata aggravata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Secondo lei, questo conflitto sarà un ostacolo o un’opportunità per accelerare la transizione energetica?
Credo sia un’opportunità! Questa crisi geopolitica si aggiunge alla crisi climatica, ma le soluzioni proposte vanno nella stessa direzione: sicurezza energetica con fonti rinnovabili, riduzione di consumo, efficienza energetica e indipendenza da petrolio e gas.
Il conflitto ha acceso i riflettori sulla geopolitica dei combustibili fossili, e ci ha permesso di riflettere sull’affidabilità di alcuni attori dello scenario internazionale. In questo senso vedo una grande opportunità: rivedere l’utilizzo delle nostre risorse, partendo dalle rinnovabili per avviarci verso la fine della dipendenza dalle importazioni e dalle fonti fossili.
Le energie rinnovabili sono democratiche, tutti possiamo averle. Il Mediterraneo e l’Africa potrebbero essere l’hotspot per la produzione e l’esportazione di questo tipo di energia. Restiamo l’hotspot, ma in positivo, per un nuovo modo di pensare l’approvvigionamento energetico.
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