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Dal vertice Unione europea-Unione africana alla COP27

Le priorità e l'agenda italiane per l'Africa sul clima

Il 2022 è un anno chiave per l’Africa. Le drammatiche conseguenze della pandemia da Covid-19 su salute ed economia, acutizzate dall’iniquità nell’accesso ai vaccini rischiano di provocare un salto indietro del continente africano e una perdita di fiducia nella solidarietà e nella cooperazione internazionale.

La timida ripresa economica avviata nel 2021 dovrà essere accompagnata da misure che permettano al Continente di coniugare crescita economica e sviluppo sostenibile, in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e dell’Agenda 2063 dell’Unione Africana. Il piano di ripresa verde lanciato dall’Unione Africana nel giugno 2021 per il periodo 2021-27 riconosce la necessità di una ripresa verde e resiliente come strumento per rispondere alle sfide relative a cambiamento climatico, salute pubblica ed economia. La risposta a queste sfide, sempre più interconnesse, deve essere messa al centro del partenariato tra il continente africano e la comunità internazionale.

La COP26 di Glasgow ha fatto segnare alcuni passi avanti in questo senso. Sono stati infatti raggiunti importanti obiettivi quali il mantenimento dell’obiettivo dell’1,5 gradi, l’impegno da parte dei paesi più ricchi a raddoppiare la finanza per l’adattamento entro il 2025, l’accordo per la tutela delle foreste del bacino del Congo e l’importante accordo per la giusta transizione in Sudafrica. Ciononostante, altri elementi sono rimasti in sospeso, in particolar modo la questione del Loss & Damage, centrale per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia climatica, e sulla quale è stato fatto solo un timido passo avanti.

La COP27, che si terrà nel novembre 2022 nel continente africano, a Sharm el-Sheikh, rappresenta un’importante opportunità affinché i bisogni dell’Africa e degli altri paesi in via di sviluppo vengano ascoltati e ricevano un’adeguata risposta.

In questo contesto, il summit Unione Europea-Unione Africana che si terrà i prossimi 17-18 febbraio a Bruxelles, rappresenta un primo appuntamento chiave per costruire insieme all’Africa una nuova partnership fondata sui seguenti pilastri: transizione verde e accesso all’energia; trasformazione digitale; crescita sostenibile e lavoro; pace e sicurezza; migrazioni e mobilità. La dimensione climatica unisce e attraversa tutti questi elementi e rende dunque necessario un forte impegno dell’Europa a fianco dell’Africa tanto nella mitigazione quanto nell’adattamento al cambiamento climatico.

Finanza e liquidità per una ripresa verde e resiliente

Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale sulle prospettive economiche globali, i paesi in via di sviluppo rischiano di vedere nel 2022 una brusca frenata della ripresa economica avviata nel 2021, a causa di inflazione, debito e disuguaglianze e del rischio di nuove varianti a fronte di campagne vaccinali che non hanno ancora raggiunto gli obiettivi fissati. L’allarme lanciato dalla Banca Mondiale fa eco a quello lanciato lo scorso anno dal Fondo Monetario Internazionale circa la disparità delle prospettive di ripresa post-pandemia tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Questi ultimi dispongono infatti di un limitato spazio fiscale, a causa di un debito pubblico elevato e difficoltà di accesso ai finanziamenti internazionali. Secondo il FMI, le economie africane necessitano di una somma pari a 285 miliardi di dollari per uscire dalla pandemia, e di una somma pari ad almeno il doppio per tornare ai livelli pre-pandemia.

In questo contesto, la questione del debito dei paesi africani torna a imporsi come prioritaria tanto per l’uscita dalla pandemia quanto per l’azione climatica. Individuare metodi sostenibili di ristrutturazione del debito è infatti necessario per coniugare queste due esigenze e fare in modo che la ripresa sia una ripresa verde e resiliente, secondo gli obiettivi dell’Unione Africana. Con il venire meno, da gennaio 2022, di due importanti meccanismi multilaterali per la riduzione del debito (l’iniziativa G20 Debt Service Suspension Initiative, DSSI, e il Catastrophe Containment and Relief Trust, CCRT, del Fondo Monetario Internazionale) l’unico meccanismo rimanente è il Common Framework for Debt Treatments del G20, che ad oggi però non ha raggiunto gli obiettivi auspicati.

Un nuovo fondo creato dal FMI, il Resilience and Sustainability Trust (RST), concordato sotto la Presidenza italiana del G20, che dovrebbe divenire operativo entro la fine del 2022, ha come obiettivo quello di sostenere la risposta a sfide strutturali di lungo periodo quali cambiamento climatico e risposta alle pandemie. I paesi più ricchi potranno destinare all’RST parte dei loro Diritti Speciali di Prelievo e contribuire così alla loro redistribuzione verso le economie più fragili. Nel 2021, il G7 a guida inglese e il G20 a guida italiana hanno espresso l’ambizione di destinare l’equivalente di almeno 100 miliardi in Diritti Speciali di Prelievo ai paesi in via di sviluppo. Allo stato attuale si registrano impegni per 45 miliardi di dollari: una somma importante ma ancora non sufficiente per fare fronte agli impegni presi.

Un’altra questione centrale per la ripresa verde e resiliente è quella dell’accesso al credito e del permanere delle difficoltà di finanziamento sui mercati internazionali proprio a causa di un’elevata esposizione debitoria e di un basso posizionamento nei rating delle agenzie di credito internazionale. Per fare fronte a queste difficoltà, la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Africa (UNECA) ha avanzato la proposta di creazione di una Liquidity and Sustainability Facility (LSF), con l’obiettivo di abbassare i costi di accesso al credito e attrarre maggiori investimenti sul mercato africano. Secondo l’UNECA, la facility potrebbe consentire il risparmio di circa 11 miliardi di dollari l’anno in interessi sul debito e dovrebbe incoraggiare l’emissione di obbligazioni verdi, o green bond, da parte dei governi africani.

La creazione di questi strumenti deve andare di pari passo con l’impegno da parte dei paesi sviluppati a dare esecuzione agli impegni di finanza per il clima presi fino ad ora: non solo il raggiungimento dell’obiettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno da destinare ai paesi in via di sviluppo (obiettivo inteso inizialmente come da raggiungere entro il 2020 ma non ancora raggiunto), ma anche l’obiettivo, delineato alla COP26 di Glasgow, di duplicare entro il 2025 rispetto ai livelli del 2019 i flussi finanziari da destinare ad azioni di adattamento. Attualmente, infatti, circa il 60% dei fondi UE sono destinati ad azioni di mitigazione. Infine, è necessario che questi finanziamenti non vadano ad aggiungersi e complicare la già pesante situazione debitoria dei paesi in via di sviluppo: è dunque necessario che venga privilegiata la forma dei “grants”, contributi a fondo perduto, rispetto a quella dei “loans”, i prestiti diretti. In caso non vi sia alternativa al prestito, è necessario che essi siano a tassi agevolati (concessional loans).

Accesso all’energia e transizione energetica

Il futuro della transizione energetica globale e della capacità di limitare il riscaldamento globale entro l’1,5 gradi in modo giusto passerà anche dalle scelte energetiche in Africa. Mentre il continente soffre già gravemente gli impatti del cambiamento climatico, è anche quello che ha influito di meno sulle emissioni globali con circa il 2% dall’era pre-industriale a oggi, e allo stesso tempo soffre il più alto tasso di mancato accesso all’elettricità.

L’International Renewable Energy Agency (IRENA) calcola che sono ancora 570 milioni le persone senza accesso all’elettricità in Africa Subsahariana nel 2019. La grande sfida oggi è quella di raggiungere accesso all’elettricità in linea con una traiettoria climatica di 1,5 gradi e l’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 7 (SDG7) di accesso universale entro il 2030. Il nuovo scenario dell’International Energy Agency (IEA) per la neutralità climatica globale al 2050 in linea con l’1,5 e l’SDG7 mostra che la chiave di volta passa dall’accesso alla rete elettrica seguita dallo sviluppo delle rinnovabili: “circa il 45% di coloro che non hanno accesso all’elettricità la otterranno entro il 2030 tramite una connessione a una rete principale, mentre il resto sarà servito da mini-reti (30%) e soluzioni autonome (25%). Quasi tutte le soluzioni off-grid o mini-grid sono al 100% rinnovabili.” Questa strategia genererebbe meno di 0,2% di emissioni di CO2.

Inoltre, nello scenario 1,5, la domanda di energia africana, se da un lato è variabile per paese, dall’altro in media non è destinata ad aumentare nonostante l’atteso aumento della popolazione. Questo perché l’efficienza energetica e i servizi elettrici sempre più efficienti compensano l’aumento di domanda generato da nuovo accesso e servizi, in linea con le proiezioni della IEA per cui “la domanda globale di energia nel 2050 è circa l’8% più bassa di oggi ma serve un’economia più che doppia e una popolazione con 2 miliardi di persone in più.” Occorre dunque ripensare le stime di domanda e il bisogno reale di approvvigionamenti rispetto ai nuovi obiettivi.

Il tema di nuovi approvvigionamenti è al centro della grande sfida energetica africana. Lo scenario IEA 1,5 mostra che anche in Africa non è necessariamente richiesta nuova produzione di gas e petrolio. Per esempio, il trend di approvvigionamento di gas liquefatto (LNG) rimane costante sui livelli attuali fino al 2030 per poi calare. Realizzare questo trend però è possibile solo se le scelte energetiche in Africa ricadranno primariamente su efficienza energetica, accesso alla rete elettrica e sviluppo massiccio di rinnovabili, il cui potenziale è enorme ma largamente sottosviluppato. Secondo IRENA, il solare ha un potenziale tecnico di 7900 GW, il più alto a livello globale, ma solo lo 0,13% è sfruttato e per tre quarti concentrato in Sudafrica ed Egitto. Il potenziale eolico è stimato a 461 GW ma di questo attualmente è sfruttato solo l’1,4%. Le rinnovabili possono creare “quasi tre volte più posti di lavoro rispetto ai combustibili fossili, per ogni milione di dollari di spesa”. Tuttavia, senza sviluppare nuove filiere industriali e catene di valore locali, insieme al commercio intra-africano, sarà difficile sbloccare questo potenziale occupazionale.

Ma investimenti nelle energie rinnovabili rimangono scarsi, con poche compagnie O&G che stanno investendo in questa direzione in Africa. Al contrario, secondo le stime di Oil Change International le compagnie O&G stanno prevedendo di investire 230 miliardi di dollari al 2030 e fino a un totale di 1400 miliardi entro il 2050 in esplorazione e sviluppo di nuovi progetti di petrolio e gas. Tutto ciò non solo è incompatibile con gli obiettivi climatici e di accesso all’energia pulita ma presenta una serie di rischi finanziari e di sicurezza. Nello scenario 1,5, la maggior parte del valore di questi investimenti sarebbe perso così come gli introiti statali attesi. Per esempio, la IEA calcola che “la maggior parte dei 200 miliardi di metri cubi di progetti LNG attualmente in costruzione non recuperano il capitale”, stimando perdite per 75 miliardi di dollari. Inoltre, il valore commerciale di gas e petrolio cambierà drasticamente nei prossimi 30 anni, con una perdita di valore stimata di almeno un quinto nel 2050 rispetto al 2020. I mancati introiti statali da crolli imprevisti dei prezzi degli idrocarburi o svalutazioni future andrebbero ulteriormente a pesare sui debiti dei paesi africani causando una sofferenza fiscale e macroeconomica che può essere sanata solo da nuovo debito. A causa di ciò, per esempio, in Guinea Equatoriale, Ciad e Algeria, i deficit hanno superato il 10% del PIL nel 2020. A questo si aggiungono significativi rischi di sicurezza e corruzione legati, in maniera diretta o indiretta, allo sviluppo di grandi infrastrutture fossili o anche dalla sola promessa di futura realizzazione, come nel caso dello sfruttamento del gas in Mozambico.

Questi scenari – insieme all’evidenza degli ultimi due decenni non solo di una mancata generazione di prosperità e resilienza dallo sviluppo degli idrocarburi ma anche dalla creazione di nuova instabilità – pongono quesiti importanti sulle priorità di politica estera energetica dei paesi europei, di come rispondere alla necessità di accesso all’energia nel modo più resiliente, e di chi si dovrà fare carico, o su chi ricadranno, i rischi: sui Governi e le popolazioni africane, sulle compagnie O&G o sulle economie avanzate? Ad ogni modo, la sfida climatica e l’esperienza fin qui accumulata devono portare a una riflessione profonda slegata dai singoli interessi industriali: sulle ipotesi di domanda futura di energia; sui benefici ipotizzati dallo sviluppo di gas e petrolio a fronte dell’esperienza effettiva e delle alternative; e su quale supporto finanziario e di diplomazia commerciale offrire di fronte a una molteplicità di rischi. Tutto ciò però deve partire più dalla specificità di ciascun paese che da un approccio indifferenziato al continente africano; non può ignorare le barriere presenti allo sviluppo e diffusione dell’energia pulita, come l’alto costo del capitale per i paesi africani e di chi sostiene i costi; e soprattutto deve fare i conti in primis con le richieste dei paesi e delle istituzioni africane in un processo di ascolto, dialogo e riconoscimento reciproco delle proprie responsabilità e diritti guidati dagli obiettivi e valori comuni di cooperazione e solidarietà.

Adattamento e Loss & Damage (L&D)

L’adattamento al cambiamento climatico è diventato un tema sempre più centrale nel periodo precedente e nel corso della COP26, sostenuto con forza dalle richieste dei paesi in via di sviluppo. La vulnerabilità del continente agli impatti del clima ha contribuito a spingere i finanziamenti per l’adattamento e il raggiungimento dell’Obiettivo Globale sull’Adattamento (GGA) stabilito dall’Accordo di Parigi al centro delle discussioni a Glasgow. Tale attenzione sarà ancora più marcata nei lavori della COP27 che si terrà in Egitto.

Alla COP26 è stata concordata la creazione di un nuovo programma di lavoro sul GGA, che mira a far progredire la comprensione e quindi l’attuazione di questo obiettivo nel lungo periodo, attraverso la definizione di metodologie e di indicatori per la misurazione delle azioni di adattamento, il sostegno all’implementazione delle azioni dei Piani Nazionali per l’Adattamento e la comunicazione delle priorità e dei bisogni dei paesi in via di sviluppo su questo fronte. Ad ulteriore riconoscimento della centralità di questo tema e della necessità di un sostegno significativo in tale ambito, i donatori si sono inoltre impegnati a raddoppiare le risorse finanziarie per le azioni di adattamento entro il 2025 rispetto ai livelli del 2019, con l’obiettivo ultimo di stabilire un equilibrio tra il sostegno alla mitigazione e quello all’adattamento.

Il continente africano ha l’urgente necessità di mettere in campo risorse ingenti per costruire in tempi brevi la propria resilienza agli inevitabili impatti del cambiamento climatico e dare soluzione alla propria vulnerabilità di fronte a tale sfida. In tale ottica, la costruzione di infrastrutture resilienti sarà un tema assolutamente prioritario per un continente che ha un forte desiderio di crescita e di sviluppo e sarà probabilmente il terreno su cui si giocheranno gli equilibri tra le più grandi economie del pianeta che intendono avere un ruolo e un peso crescente nell’area. Al di là delle sfide geopolitiche e delle diverse iniziative lanciate in questo ambito rispettivamente da Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito in scia al crescente ruolo di investitore principale della Cina in Africa, resta da comprendere come e fino a che punto i lavori della COP27 possano dare una risposta utile e soddisfacente alle richieste dei paesi africani sull’adattamento.

Altro aspetto centrale per i paesi in via di sviluppo affrontato alla COP26 è la questione delle inevitabili perdite e i danni (Loss & Damage) derivanti dal cambiamento climatico. Al di là di alcuni progressi di carattere tecnico, è emersa chiaramente la forte richiesta guidata dai paesi più vulnerabili di istituire uno strumento di supporto autonomo per il finanziamento delle perdite e dei danni subiti che preveda mezzi innovativi per garantire risorse per le perdite economiche e non economiche legate agli effetti negativi del cambiamento climatico, facendo ricorso anche a meccanismi di assicurazione per il trasferimento del rischio. Sebbene il Patto per il clima di Glasgow abbia dato alcune iniziali risposte, i paesi in via di sviluppo, la società civile e i media internazionali hanno sottolineato come il risultato della COP26 non sia stato all’altezza delle aspettative e della complessità del problema. La forte attenzione agli aspetti finanziari e la dimensione geografica della COP27 porterà inevitabilmente al centro delle discussioni la questione delle perdite e dei danni e di come la comunità internazionale possa dare una risposta adeguata e concreta a questa sfida, sfruttando la vasta gamma di strumenti finanziari e di supporto esistenti e potenziali all’interno e all’esterno della UNFCCC, facendo soprattutto leva sulle istituzioni finanziarie internazionali e multilaterali ben più attrezzate ad affrontare problematiche di tale scala.

Nei mesi che porteranno alla COP27, sarà centrale comprendere quali soluzioni potranno essere concordate per il L&D a Sharm el-Sheikh; quali agenzie e programmi hanno già come priorità quella di evitare e minimizzare le perdite e i danni del clima e quali risorse sono già disponibili; quali strumenti multilaterali e internazionali dovranno essere attivati per fornire la liquidità ai paesi in via di sviluppo per rispondere alle devastazioni crescenti derivanti dai fenomeni estremi guidati dal cambiamento climatico e quale ruolo il processo UNFCCC possa continuare ad avere nella gestione del L&D. L’Italia, forte del suo interesse per un rilancio della collaborazione con i paesi africani e del suo ruolo come finanziatore delle banche multilaterali, può svolgere un ruolo di primo piano in questo dibattito, promuovendo iniziative di grande impatto al di fuori del contesto UNFCCC.

Photo by Kyle Glenn on Unsplash

 

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